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La “contenzione sociale” della follia

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La "contenzione sociale" della follia
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Lavorando in un contesto psichiatrico, precisamente in un Centro di Salute Mentale, mi si presentano sotto gli occhi quotidianamente, le diverse sfumature della patologia mentale che vanno ad intaccare il quotidiano vivere dei nostri utenti

La psicopatologia influisce negativamente sul contesto familiare e sociale, “immobilizza” il paziente e lo confina al punto di partenza di un labirinto infinito, molto spesso, in completa solitudine. Uscirne è un’impresa quasi impossibile, se lungo tale cammino nessuno gli tende una mano.

Il contesto familiare che lo circonda, ove esistente, si dimostra inconsapevole, inerme, riluttante, fino ad arrivare ad essere soggiogato dalla pesante verità sul proprio caro.

Mentre l’ambito sociale che ruota attorno all’interessato, coopera per la costituzione di interventi mirati che alleviano e rinfrancano da una, sempre più pressante, emarginazione dalla società, attraverso interventi cosiddetti di “rete”.

Ma sovente, purtroppo, si nota una trasformazione di tale rete: le mire cambiano; i fini ultimi vorrebbero giungere attraverso mezzi più comodi e veloci; la Rete, “stringe le maglie” e quasi aggroviglia il ns. paziente, perdendo la vocazione alla quale è chiamata.

Il lavoro territoriale di raccordo con i diversi ed innumerevoli Servizi Pubblici e privati determina la qualità di un filo logico e portante a garanzia dell’ottimale gestione per la salute della persona. Il C.S.M., infatti, si rapporta con gli Enti Comunali attraverso i Servizi Sociali, Ambito e a volte se il caso e la storia clinica o personale, purtroppo, lo richiede,  anche con Organi Giudiziari come Tribunale, Uff. Sorveglianza, U.E.P.E., ecc..

Ognuno, è chiamato a dare il proprio contributo, ognuno con diverse competenze, ciascuno rispetto a delle consolidate basi che rappresentano un mandato istituzionale mirato e nobile.

Molto spesso, però, noto una certa convergenza in un argomento significativo, in un punto che lascia perplessi e rievoca un’idea del passato che sembrava rimossa  posta in essere con la L. 36 del 1904, in cui si parla di “pubblico scandalo” attuata come difesa sociale.

Molto spesso l’appunto rivolto per i  nostri utenti, parlo di situazioni di un certo grado di complessità e di difficile e di protratta gestione temporale, è sempre quell’idea che attanaglia la mente di tutti gli attori: “Fate un T.S.O.!”.

Dovremmo farlo, cioè, solo per un’immediata risoluzione del caso che impegna la quotidiana routine delle ns. scrivanie?

In modo tale da poter apporre una “crocetta” risolutiva della pratica tanto sofferta e per acquietare la nostra testa che mal sopporta uno stress del genere.

Dovremmo attivarci e “ripulire” col nostro intervento una società intrisa di malattia mentale, solo per permettere ai “sani” di vivere in un mondo più pulito e sicuro?

Ricordiamo all’uopo che per l’art. 32 della Costituzione:“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Anche l’art 33, primo comma, della Legge 833/78 afferma che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari”.      

Ma il diffondersi di un eccesso ideologico culturale strisciante è ormai virale, quando, ancora non è presente l’acme impellente dell’urgenza medica. Un’emergenza sociale, si fa passare molto spesso come necessario intervento sanitario-clinico, non potendo far altro che constatare come i comportamenti umani vengono continuamente valutati ed etichettati [1].

Non c’è spazio per “…iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”[2], si procede così per inerzia e basta.

Il T.S.O. resta a guardare dall’alto, come un avvoltoio, sempre pronto a dilaniare vittime designate, a volte, dal “pubblico pudore”.

Le richieste insistenti, bizzarre, e fuori dal coro, di denaro, di un alloggio o la dimostrazione “molto personale” di un disagio, di certo facendo subodorare la patologia celata, potrebbero venire stigmatizzate, marchiate da molti di noi, in primis da una Società che ha bisogno di sicurezza, di difesa, rischiando sempre più di alienare sè stessa per il semplice fatto di agire sotto il vessillo della giustizia.

La risoluzione del caso, quindi, è dietro l’angolo, la ghiotta occasione che rimugina nella nostra mente è sempre quella, sfruttiamola, approfittiamo,…“rinchiudiamo la follia”!

 

Giovanni Trianni, Inf. Legale Forense

 

[1] Sulla Teoria dell’Etichettamento, si veda Howard S. Becker, Outsiders-studies in the sociology ofdeviance, Paperback edition, New York, 1966 e S.Hester e P.Englin, p.93 e ss.

[2] L. n°833 del 23/12/1978, art.33, comma I.

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