Uno degli annosi problemi con cui gli infermieri fanno i conti tutti i giorni nella loro pratica clinica è la carenza del personale per far fronte ai bisogni d’assistenza degli assistiti in maniera globale e continuativa
Gli infermieri quando discutono su come migliorare la qualità della propria assistenza, devono far i conti con un numero spesso troppo esiguo di personale proporzionato al carico di lavoro.
Da questa condizione, accettata ormai con fin troppa rassegnazione, ne consegue l’aumento delle cure mancate (ciò che non facciamo per mancanza di tempo) tra cui annoveriamo anche la stesura dei piani d’assistenza o la relazione con l’assistito, entrambe riconosciute nel nostro profilo come competenze core dell’assistenza infermieristica.
Ci si è mai chiesti il motivo per il quale gli organici sono ridotti così all’osso?
Escludendo i fattori di sostenibilità economica, la natura (e la causa) del problema è unicamente politica: l’ospedale è regolamentato, per quanto concerne la dotazione organica, dall’ancora vigente DPR 128/1969 “Ordinamento interno dei servizi ospedalieri”.
Questo provvedimento è noto per aver stabilito i minuti di assistenza/die nei vari servizi ospedalieri.
Ad oggi permane questo l’unico parametro per la quantificazione del numero di personale per garantire la copertura della domanda di assistenza infermieristica.
È facile ipotizzare l’ inadeguatezza di una normativa di ben 48 anni fa che ormai non fa più presa su una realtà profondamente mutata. Infatti la normativa, in materia di determinazione del fabbisogno del personale d’assistenza, non ha tenuto conto delle modificazioni dei bisogni di salute della popolazione afferente alle strutture ospedaliere, delle modificazioni tecnologiche e dell’ evoluzione della professione infermieristica.
Tutto ciò fa si che l’ospedale rimanga una delle grandi “invarianze” della sanità: in un mondo profondamente mutato, le leggi che lo governano sono le stesse e perciò del tutto anacronistiche.
Data questa discrepanza, credendo che gli attuali livelli di organico definiti per legge non consentano agli infermieri di rispondere al ruolo che la società ha loro attribuito per mezzo della legislazione specifica, negli ultimi anni si stanno affermando metodologie scientifiche di misurazione delle attività assistenziali che sostengono l’importanza di una congrua definizione dello staffing delle unità operative.
Queste metodologie scompongono il ciclo produttivo del lavoro infermieristico per definire quantitativamente l’organico tramite il calcolo dei tempi di assistenza, assegnandoli non tout court come nel DPR 128/69 ma correlati a specifiche variabili assistenziali.
Per esempio il metodo svizzero calcola il fabbisogno del personale considerando il tempo dedicato per un singolo ricoverato nelle 24h relativo all’assistenza diretta (classificata in 3 classi di dipendenza: totalmente dipendente, parzialmente dipendente e autonomo) + l’assistenza indiretta e alberghiera (costanti).
Un metodo nostrano è l’Indice di Complessità Assistenziale (ICA).
Premesso che il concetto di complessità assistenziale è definito come “l’insieme dei problemi di salute di una persona che richiedono interventi di cura e assistenza più o meno complessi e articolati”, il modello ICA, rifacendosi al modello di Cantarelli, attribuisce un indice diverso a seconda delle prestazioni infermieristiche classificate in base a 5 livelli di complessità assistenziale (Indirizzare, Guidare, Sostenere, Compensare, Sostituire).
Questo metodo consente di misurare accuratamente il carico di lavoro della propria U.O. sotteso al diverso grado di complessità assistenziale degli assistiti in quel servizio.
Il Metodo Assistenziale Professionalizzante (MAP), promosso e sperimentato dalla FNC Ipasvi, definisce il fabbisogno di infermieri valutando la complessità assistenziale degli assistiti incrociando una serie di elementi che tengono conto di una serie di fattori: stabilità clinica, responsività, indipendenza e contesto.
I modelli fin ora accennati concentrano la propria analisi sui processi tuttavia la ricerca infermieristica in ambito nazionale e internazionale sta orientando il suo interesse verso la misurazione degli esiti.
Il consorzio mondiale RN4CAST ha condotto studi in oltre 30 paesi, tra i quali l’Italia, che hanno associato il livello quali/quantitativo dello staffing infermieristico e di supporto agli esiti sensibili alle cure infermieristiche (mortalità e insorgenza di complicanze).
I risultati sono i seguenti:
- Se il rapporto tra infermieri e pazienti assistiti è maggiore di 1/6 aumentano gli esiti negativi (mortalità a 30 giorni, complicanze come cadute, errori di terapia, lesioni da pressione e riduzione della soddisfazione), le attività assistenziali previste e non svolte e aumenta il burnout del personale.
- Aggiungendo pazienti da assistere ad ogni infermiere aumenta la mortalità e aumentano le cure mancate.
- La presenza di personale di supporto superiore in proporzione al 40% dello staff infermieristico diventa pericolosa e può determinare anch’essa un aumento della mortalità.
IPASVI e tutti i sindacati infermieristici (ci auspichiamo per una volta uniti su un problema di interesse generale) devono portare avanti congiuntamente queste istanze nei banchi centrali della politica.
Le evidenze scientifiche ci sono, sono autorevoli e sono sufficienti per per abrogare il DPR 128/69. Ma l’attività dei nostri organi di rappresentanza è direttamente influenzabile dalle volontà e dalle pressioni della base professionale.
Dunque colleghi, non deleghiamo sempre tutto ai vertici; prendiamo atto che la grave carenza di personale infermieristico non è una condizione irrimediabile con cui convivere rassegnati ma un problema da affrontare come assoluta priorità in considerazione del fatto che la domanda di assistenza sanitaria cresce di anno in anno, anche in relazione all’aumento della durata media della vita.
Questa condizione ci pone costantemente davanti all’imperativo morale di sopperire a qualsiasi carenza poiché le nostre “linee di produzione” non sono macchine ma persone e dunque impossibile moralmente astenersi da quelle attività ritenute demansionanti che compromettono il nostro vero mandato professionale ma pur sempre necessarie per il benessere del paziente.
Ci vuole una presa di consapevolezza forte del nostro status.
Pensiamoci bene chi può dare alla politica nuovi stimoli di cambiamento se non noi?
Noi che abbiamo una posizione privilegiata poiché siamo sia gli operatori più numerosi, sia finanziatori e sia potenziali utenti del SSN, dunque investiti di un triplice interesse!
Allora svegliamoci, uniti e compatti verso il raggiungimento dei nostri obiettivi!
Raffaele Varvara
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