Nel locale ospedale spiccano le lettere di riconoscenza affisse da chi ce l’ha fatta, ma anche da chi ha visto i propri cari perdere l’ultima sfida.
Sono lettere che spuntano all’ultima curva di uno slalom fra la vita e la morte, in bella calligrafia o con scrittura malferma, ma anche con la formalità di un computer e perfino con i segni netti delle vecchie macchine per scrivere. In tanti ospedali sono appese in disparte, quasi timidamente, certo non ostentate e fanno capolino soprattutto in quei luoghi sconosciuti ai più come i reparti rianimazione, dove il bivio «fra il freddo di una perdita o il calore di una presenza» è sempre alla fine di salite impervie.
Queste lettere, scritte da chi ce l’ha fatta o da quelli che hanno visto i propri cari perdere l’ultima sfida, per chi le riceve valgono molto più dello stipendio. Al reparto rianimazione della Cardiochirurgia dell’edificio 10A dell’ospedale pisano di Cisanello si trovano per caso, quasi come se si temesse di esibire quello che non è un trofeo ma solo la riprova che c’è un’Italia che sa dire grazie, dove gli egoismi sono lontani.
Cisanello è uno di questi luoghi dove il bene combatte il male attraverso la sapienza di medici e operatori sanitari di prim’ordine e dove l’umanità è la prima medicina. Di loro si parla poco, perché certo c’è più “rumore” quando sbagliano o quando, raramente, non fanno il loro dovere. Più difficile scrivere ogni giorno che qui va tutto bene. E, soprattutto, perché questi non sono luoghi dove si va per caso; quando si bussa a quelle porte è perché si ha bisogno, tanto bisogno. Come scrive una mano certamente giovane e femminile su un foglio pieno di cuoricini, «quando si perdono riferimenti, punti fermi, certezze qui ci sono persone come voi che ci hanno fatto sentire a casa, trasformando un ricovero così impegnativo in un “sentirsi in famiglia”».
In un momento come questo, attraversato da egoismi di ogni genere, da crisi che mettono contro ultimi e penultimi con i terzultimi spettatori interessati e con i primi della fila pronti a gioire, può far bene sapere che esistono ancora realtà dove a nessuno viene chiesto «chi sei?», «da dove vieni?», dove nessuno si preoccupa se chi ha bisogno è povero, ricco, se si è comportato bene. E non c’è neanche il pedaggio del ticket.
Non c’è tempo per cose così minimali, quando la vita e la morte giocano partite talvolta repentine e altre così estenuanti da farli diventare un continuo zig-zag fra speranza e disperazione. In questi luoghi che si chiamano rianimazioni, la morte è ben presente, ogni tanto si affaccia e porta via qualcuno. Quando accade, la disperazione dei parenti diventa di tutti, ci sono abbracci e ci sono partecipazioni sincere al dolore del vicino di letto e quando invece tutto finisce bene o comincia a finir bene la gioia è delicata, quasi distillata: «Pensavo che gli angeli non esistessero invece li abbiamo incontrati qui. Questa è una data che non scorderemo mai, dopo 53 giorni domani andremo in riabilitazione. Non vi ringrazieremo mai abbastanza».
E se, quando chi è arrivato privo di conoscenza esce camminando autonomamente, è abbastanza facile dire grazie, c’è da farsi venire i brividi quando si leggono le testimonianze delle persone care di quelli che non ce l’hanno fatta. «Durante questi quaranta giorni Mario ha incontrato medici e infermieri che con cura, pazienza e professionalità lo hanno accudito come un padre, come un nonno».
Oppure: «La famiglia, pur colpita dal tragico epilogo della malattia del caro, sente il bisogno di esprimere il suo ringraziamento a tutti i medici e a tutto il personale dell’Unità di Terapia Intensiva per la professionalità, competenza ma soprattutto per la dedizione instancabile con cui si sono presi cura del proprio caro e per l’umanità e la disponibilità dimostrate nei confronti dei suoi familiari in questa situazione così drammatica».
E ancora: «Con questa lettera, a distanza di poche settimane dalla perdita di mia moglie e di nostra madre vogliamo esprimervi il nostro sincero ringraziamento… Vi scriviamo perché possiamo immaginare quanto sia difficile confrontarsi con i familiari dei pazienti, con la maleducazione e l’arroganza che perfino noi talvolta abbiamo riscontrato nel tempo passato in sala d’attesa».
Non si finisce mai di restare piacevolmente stupiti da quest’Italia bella, che sa dire grazie, che non ha paura di mostrare il suo volto che apre alla speranza: «Un sorriso, una carezza sono stati per noi un salvavita, anche quando le avversità della malattia ci remavano contro». Le parole sono delle figlie di una signora che ce l’ha fatta e parlano al plurale perché si sentono dentro anche loro nel trattamento che medici e infermieri hanno riservato alla loro mamma.
Le parole appese in bacheca che trasuda umanità commuovono: «Siete persone che combattono affinché la via dia un bel calcio a tutto. Grazie per aver asciugato le mie lacrime sempre e ogni volta mi sono chiesto come fate». E un altro paziente: «Ora per me inizia una fase nuova e ci vorrà del tempo ma grazie a voi questa è l’ultima preoccupazione».
Sì, questi sono luoghi speciali. C’è un’enorme sala piena di letti supertecnologici circondati da monitor e sensori, strumenti salvavita, flebo. Su quei letti ci sono sguardi spenti e speranzosi, da quei letti si alzano voci timide o che fan fatica e quelle quasi tonanti e baldanzose di chi ce l’ha fatta. E c’è anche il silenzio di chi è presente solo per i tracciati delle macchine. Morte e rinascita a braccetto.
Tutto intorno, negli orari in cui è consentito, si muovono silenti e rispettosi amici e parenti. Nei corridoi, durante le attese, ci sono pacche sulle spalle e parole di incoraggiamento specie per quelli che hanno i volti scavati dall’insonnia e dalle preoccupazioni. Quasi tutti, dopo, scriveranno, qualunque sia l’epilogo. Non ai giornali, non sui social ma direttamente al destinatario della loro riconoscenza. C’è chi ha una parola per l’anestesista, addirittura in rima. E chi prova a farci una battuta: «Grazie di cuore (aorta compresa)».
Infine, il riconoscimento più bello, se di bellezza si può parlare al cospetto della morte: «Sappiamo che il giorno stesso in cui Donatella ci ha lasciati lei stessa, perfettamente cosciente fino alla fine, ha ringraziato il medico di turno e gli infermieri per l’assistenza che le avete continuamente fornito. Crediamo che questo ringraziamento a fine vita valga più di mille nostre lettere». Che aggiungere? Niente, bastano i brividi, i brividi infiniti provocati da queste parole. La Grande bellezza di un sentimento immenso come quello della riconoscenza non può restare in quella bacheca, in quel muro tenuto su con i mattoni della gratitudine. È giusto portarle fuori, queste lettere, farle leggere a tutti per darci coraggio, per capire che fuori non è solo crisi e lotta dura.
Ecco, oggi abbiamo una certezza. Ci sono muri tirati su per odio e altri come quelli dove vengono affissi questi messaggi, che trasudano solo amore. E speranza.
Fonte: Il Tirreno
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