Proponiamo un interessante contributo del nostro collaboratore dal Regno Unito, Luigi D’Onofrio.
41mila nel Regno Unito, secondo statistiche ufficiali NHS, almeno 50mila in Italia, in base a stime Fnopi. Sono queste le cifre, in continua variazione e destinate – per il momento – a peggiorare, relative alle carenze di personale infermieristico.
L’indisponibilità di professionisti dell’assistenza rappresenta un’emergenza cronica, che affligge tutti i principali Paesi industrializzati, dove l’aumento dell’aspettativa di vita ha generato un aumento della domanda di servizi sanitari, cui l’offerta non ha Saputo adeguarsi negli anni, anche a causa di scelte politiche miopi, quali il blocco del turnover in Italia. Oppure il taglio delle bursaries, le borse di studio nel Regno Unito, decisione scellerata del ministero Hunt, pagata finora con 13mila iscritti in meno negli ultimi tre anni ai corsi di laurea in Nursing.
Secondo la mia opinione, si tratta di strategie studiate a tavolino e non accidentali, ovvero provocate esclusivamente dall’incompetenza del politico di turno. Perlomeno è così in Gran Bretagna, dove si è da tempo palesata una pianificazione mirata a investire ingenti risorse nella creazione di ulteriori figure di supporto all’infermiere, con competenze estese rispetto a quella dell’HCA (healthcare assistant) e, per giunta, con attribuzione di autonomia e responsabilità professionale.
Per chi non conoscesse la sanità britannica, il riferimento è al nuovo ruolo del nursing associate, istituito nel 2016 (proprio in concomitanza del taglio delle bursaries) ed entrato a pieno titolo nell’agorà del mercato del lavoro lo scorso mese di gennaio, dopo che le università hanno sfornato i primi diplomati del corso di studi, di durata biennale.
Come era prevedibile, l’ingresso degli associates ha rinfocolato apprezzamenti e polemiche: supporteranno l’infermiere e lo libereranno dalla pressione delle attività assistenziali di base? Oppure la loro progressiva proliferazione negli ospedali britannici genererà confusione e dequalificazione della professione infermieristica agli occhi dell’opinione pubblica?
Non dimentichiamoci che anche loro sono definiti “nurses”! Prima di avventurarci in prematuri giudizi, vale la pena approfondire le competenze del nursing associate. Secondo gli standard of proficiency, ovvero il documento di riferimento elaborato dall’NMC, si tratta di un operatore che, oltre alle mansioni alberghiere e all’assistenza di base (igiene del paziente, rifacimento del letto, rilevazione dei parametri vitali), è autorizzato all’esecuzione di prelievi ematici e di ECG, alla somministrazione di clisteri, nonché di terapia topica, orale, inalatoria, sottocutanea e intramuscolare.
Cari colleghi in Italia, vi ricorda qualcuno? Esatto, l’oss con formazione complementare o specializzato (osss). A differenza di quest’ultimo, tuttavia, il nursing associate presenta una peculiarità: nell’ambito delle sue competenze è accountable, cioè responsabile in sede disciplinare, civile e penale. È per tale ragione che l’NMC ha deciso di istituire una sezione speciale del Registro per gli associates, aperta ufficialmente il 28 gennaio scorso. Nell’esecuzione del singolo atto, pertanto, essi operano in modo autonomo e non sulla base delle direttive o del controllo dell’infermiere, che resta comunque il referente ultimo della pianificazione assistenziale e il coordinatore dell’attività di tutte le figure di supporto.
In altre parole, il nursing associate, ad esempio, sarà personalmente responsabile per un errore commesso nella somministrazione di una terapia orale, rientrando tale attività nelle sue competenze ed essendo stata questa delegatagli e non attribuitagli dall’infermiere, nel contesto di una interazione e cooperazione professionale, sintetizzabile attraverso la seguente tabella, che illustra le differenze tra i ruoli (evidenziate in neretto):
NURSING ASSOCIATE | REGISTERED NURSE |
Professionista autonomo e responsabile (accountable) | Professionista autonomo e responsabile (accountable) |
Promuove la salute e contribuisce alla prevenzione delle malattie | Promuove la salute e contribuisce alla prevenzione delle malattie |
Identifica i bisogni di salute e pianifica l’assistenza | |
Eroga cure e monitora le cure da lui prestate | Eroga cure e monitora il processo di cura |
Lavora in equipe | Lavora in equipe, gestisce e guida l’assistenza. |
Contribuisce al miglioramento degli standard di sicurezza | Contribuisce al miglioramento degli standard di sicurezza |
Contribuisce al processo integrato di cura | Coordina il processo di cura |
Vogliamo insomma definire il nursing associate un “mini-infermiere”? Nominalmente e giuridicamente, la risposta non può che essere positiva. Se poi la sua introduzione si rivelerà in grado di garantire il mantenimento o addirittura il miglioramento degli attuali outcome assistenziali, solo il tempo potrà chiarirlo, ma una certezza esiste già. Passatemi il paragone: per funzionare, una fabbrica ha bisogno di pochi dirigenti e molti operai. L’assistenza, in effetti, si struttura come un complesso di attività, di cui alcune si configurano come atti ad alta riproducibilità tecnica e bassa discrezionalità decisoria, per i quali, ai fini di una corretta esecuzione, è necessario solo un breve “addestramento”.
Nessuna meraviglia, pertanto, per chi vive nel Regno Unito, che siano gli HCA ad eseguire, in molti casi, prelievi ematici. Al contrario, altre prestazioni (l’identificazione dei bisogni di salute, la pianificazione dell’assistenza, l’educazione sanitaria) richiedono competenze teoriche, oltre che pratiche, frutto di un lungo e complesso percorso formativo, come quello seguito dall’infermiere.
Un sistema sanitario che intenda dare compiuta (e tardiva) realizzazione alla funzione dell’infermiere di responsabile dell’assistenza infermieristica – come previsto dal D.M 739/94 – e che voglia promuoverne competenze specialistiche cliniche e manageriali, dovrebbe perciò non solo investire nella formazione di base di nuovi professionisti e in quella avanzata degli infermieri già esistenti, ma anche nell’aumento del numero di operatori di supporto (ancora oggi eccessivamente sbilanciato a favore degli infermieri: 450mila contro 170mila oss), nonché nel consolidamento delle competenze di questi ultimi e perfino nell’attribuzione di responsabilità giuridiche proprie, sul modello del nursing associate britannico.
Passando attraverso step preliminari indispensabili, quali una ridefinizione contrattuale degli scalini retributivi, la creazione di un comparto ad hoc per la categoria infermieristica e di percorsi formativi specifici per le competenze avanzate e specialistiche, saluterei perciò con favore una parallela promozione della figura e dei compiti dell’oss, soprattutto quello con formazione complementare.
Di contro, pur comprendendo pienamente la necessità del turnover ai fini del ringiovanimento dell’ormai attempata forza lavoro infermieristica nel nostro Paese, oltre che dell’avvicinamento, specie nelle regioni del Sud, all’ideale rapporto infermiere/pazienti di 1:6 individuato nello studio RN4Cast, non condivido appieno la recente politica della Fnopi di proporre l’abolizione del numero chiuso nei corsi di laurea in infermieristica.
Lo so, sono in (parziale) controtendenza. Tuttavia, per formare i dirigenti, bisogna assumere operai. Tanti. Perché, se ciò non avviene, i dirigenti studiano da dirigenti e vengono assunti in qualità di dirigenti. Per poi, di fatto, lavorare come operai. È il paradosso sotto gli occhi di tutti gli infermieri italiani, colpiti dalla diffusa piaga del demansionamento, ma sofferenti anche per il mancato riconoscimento di ruoli dirigenziali o di competenze specialistiche e avanzate.
Per superare il paradosso è però necessario superare una barriera culturale, presente nella nostra categoria prima ancora che nell’opinione pubblica o nelle strategie di politici e dirigenti. Un infermiere non ha bisogno di eseguire un prelievo a testa in giù o a occhi chiusi per dimostrare di essere più preparato di altri. Non occorre saper distinguere le compresse dal loro colore.
Un matron inglese, l’equivalente di un coordinatore dipartimentale italiano, potrebbe non aver mai inserito un catetere vescicale in tutta la sua carriera. Non è così importante. Non sono le abilità tecniche, in buona sostanza, a fare la differenza. Una professione intellettuale, come quella infermieristica, ha bisogno di pensatori, di ricercatori, di manager, di leader. Quelli che l’Italia potrebbe pescare a mazzi tra i suoi professionisti, ma che invece non riesce ancora a valorizzare.
Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society
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