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Il rischio infettivo: tra percezione e realtà

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Il rischio infettivo: tra percezione e realtà
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Proponiamo un elaborato a cura dei seguenti autori.
COSIMO DELLA PIETÀ: PROFESSORE A CONTRATTO IN SCIENZE INFERMIERISTICHE, UNIVERSITÀ DI BARI, POLO JONICO
MATTIA APRILE : STUDENTE CDL INFERMIERISTICA UNIVERSITÀ DI BARI, POLO JONICO
STEFANIA PASTORE : STUDENTESSA CDL INFERMIERISTICA UNIVERSITÀ DI BARI, POLO JONICO
NATALIAPORFIDO: STUDENTESSA CDL INFERMIERISTICA UNIVERSITÀ DI BARI, POLO JONICO

ABSTRACT 

La prevenzione e il controllo delle infezioni sono problemi importanti per tutte le realtà sanitarie. Gli infermieri, in particolare quelli d’area critica, sono esposti ad un marcato rischio di contagio infettivo-biologico. Come deve comportarsi un infermiere per prevenire il rischio infettivo? Come prevenire i disturbi psicosomatici da stress lavoro-correlato?

INTRODUZIONE 

Fu Florence Nightingale, la prima a occuparsi del rischio infettivo, in ambito sanitario in chiave moderna. Subito dopo l’inizio della guerra di Crimea, la stampa comincia a riportare le notizie delle gravissime condizioni di mezzi e metodologie con cui vengono curati i feriti.

Il 21 ottobre 1854, autorizzata da Sidney Herbert, Nightingale parte per la Turchia con altre trentotto infermiere volontarie, da lei istruite, e, ai primi di novembre, giunge a Scutari (oggi diventato un quartiere della città di Istanbul), a 500 km (via mare) da Balaklava, quartier generale della spedizione britannica in Crimea.

A Scutari le condizioni in cui cercavano di sopravvivere i feriti erano miserande, tanto è vero che la maggior parte dei decessi non erano conseguenza della guerra bensì dell’ambiente in cui erano confinati. Florence si guardò in giro e se ne rese immediatamente conto: igiene inesistente, sovraffollamento, altissimo pericolo di contagio, scarichi fognari a vista, nessun ricambio d’aria, nuove infezioni ogni giorno, alimentazione insufficiente e, ovviamente, personale medico in numero assolutamente inadeguato. Le volontarie venute dalla lontana Inghilterra si diedero immediatamente da fare tra lo scetticismo degli alti gradi militari, ma la situazione ormai compromessa non migliorò in maniera significativa.

Dopo qualche iniziale resistenza da parte dei medici, la Nightingale e le sue infermiere puliscono a fondo l’ospedale e riorganizzano il sistema di assistenza. Tuttavia, nonostante l’impegno e la dedizione, la mortalità in quella circostanza non diminuisce, anche perché solo il 10% di essa è dovuta alle ferite di guerra, il resto dipende dal sovraffollamento degli ospedali, dalla mancanza di ventilazione e dalle carenze del sistema fognario. Solo nel marzo 1855, una commissione sanitaria inviata dall’Inghilterra risolve una buona parte di questi ostacoli alle cure, portando ad una drastica riduzione della mortalità.

Al suo ritorno in patria, raccogliendo materiale per la “Royal Commission on the Health of the Army”, Nightingale definisce, sulla base dell’esperienza in Crimea, la sua teoria di “nursing”, che non a caso è incentrata sul concetto di “ambiente”, fattore principale nello sviluppo di malattie. Individua, infatti, cinque requisiti essenziali che un ambiente deve possedere per essere salubre: aria pulita, acqua pura, sistema fognario efficiente, pulizia, luce; a questi aggiunge anche indicazioni di fattori, non essenziali ma utili ad una migliore guarigione quali il silenzio, il calore e la dieta.

Anche gli infermieri sono esposti a un elevato rischio infettivo: ogni anno in corsia oltre 7 incidenti su 10 provocati da tagli e punture colpiscono gli infermieri, la categoria professionale in assoluto più esposta in ambito ospedaliero; in particolare i reparti di area critica sono gli ambienti di lavoro più stressanti: orari di lavoro mutevoli, problematiche etiche ed organizzative, ritmi operativi frenetici sono causa di stress lavoro-correlato che può notevolmente influenzare la stabilità psicologica individuale e far calare i livelli di allerta verso la protezione individuale dalle malattie derivabili dal lavoro.

Da questo assunto è partito il progetto di studio “il rischio infettivo: tra percezione e realtà”. Si tratta di uno studio osservazionale descrittivo nato con l’obiettivo di render noti i motivi e le realtà che accompagnano la routine dell’infermiere in una situazione di burnout potenzialmente pericolosa.

Proprio la percezione che ogni infermiere ha del rischio concernente le sue competenze può condizionare dal punto di vista quali-quantitativo il livello di sicurezza con cui agisce. Diviene così possibile misurare la percezione del rischio e integrare il dato ottenuto nella valutazione dei rischi tecnico-probabilistica, incrementando la consapevolezza del soggetto sulla connotazione dei fattori di rischio e consentendo all’organizzazione di comporre interventi informativi e formativi più aderenti ai bisogni del lavoratore, migliorando la cultura della sicurezza.

MATERIALI E METODI 

Per poter sviluppare questo elaborato abbiamo utilizzato molteplici fonti bibliografiche e internet, attraverso cui è stato possibile consultare articoli riguardanti concetti storici, letterari, scientifici e statistici; con l’integrazione delle teorie sviluppate da Abraham Harold Maslow e Florence Nightingale, trattate nel volume di Edoardo Manzoni.

RISULTATI E DISCUSSIONE 

L’area critica si caratterizza per complessità e rapidità di interventi atti a sostenere le funzioni vitali dell’individuo, in condizioni cliniche precarie. Il paziente critico presenta, infatti, condizioni tali da comprometterne la sopravvivenza a breve-medio termine; esso si trova in una situazione di instabilità clinica che necessita di alta intensità di cura, di un monitoraggio continuo e dell’utilizzo di procedure invasive che ne consentano la stabilizzazione. È doveroso, a tal fine, mettere in atto risposte assistenziali intensive e continue con tempestività.

L’area critica rappresenta uno degli ambienti lavorativi nei quali il rischio biologico-infettivo per il personale sanitario e il paziente è molto più marcato rispetto ad altre unità operative. Le cause di tale problematica sono da ricercare principalmente nell’invasività dell’azione salva-vita e nella tipologia di lavoro svolto dal team, che, essendo sottoposta ad importanti carichi lavorativi che contemplano una notevole tensione fisica e psicologica, risulta particolarmente vulnerabile ai rischi di contagio.

In particolare molte infezioni possono essere contratte in seguito a ferite casuali con aghi e strumenti taglienti contaminati con materiale biologico infetto e/o per contatto di materiale infetto con mucose o pelle non integra, dal rapporto continuativo tra il personale sanitario e i malati, dalla presenza di materiale biologico potenzialmente infetto, dall’uso di strumenti e apparecchi di diagnosi e cura, dall’eventuale inquinamento ambientale dei settori di degenza, ecc. Riguardo al rischio di ferirsi o pungersi, non bisogna dimenticare che la puntura d’ago o il taglio con strumenti chirurgici contaminati con materiale biologico proveniente da pazienti potenzialmente infetti, costituisce la principale causa di trasmissione di malattie infettive per via parenterale quali l’epatite virale B e C e il virus dell’HIV.

Secondo i dati dell’Osservatorio italiano 2017 sulla sicurezza di taglienti e pungenti per gli operatori sanitari, tagli e punture accidentali costituiscono in Italia circa il 75% dei cosiddetti “incidenti occupazionali a rischio biologico”. Il restante 25% è riconducibile a contaminazioni mucose e cutanee con sangue e altri liquidi biologici (dati Studio Siroh).

Inoltre secondo l’Oms l’incidenza del virus dell’epatite B (HBV) e dell’epatite C (HCV) e del virus da immunodeficienza HIV è notevolmente più alta nella popolazione ospedaliera piuttosto che in quella generale e in assenza di interventi preventivi, nel mondo ogni anno si verificano oltre tre milioni di incidenti causati da strumenti pungenti o taglienti contaminati con Hiv o virus dell’epatite B e C. Incidenti che causano almeno 83 mila infezioni ogni anno.

Capita che gli infermieri a volte temano delle attività che non sono in realtà pericolose e non temano, invece, delle attività che potrebbero avere conseguenze molto drammatiche. La percezione del rischio è personale: decidiamo di affrontare o evitare la situazione di rischio in modo soggettivo. Ogni nostra attività quotidiana è basata sulla percezione che noi abbiamo del rischio ed è il frutto di una sua conscia (o inconscia) valutazione. Il processo percettivo del rischio è poi fortemente influenzato dalle emozioni generate nel momento in cui scopriamo ed impariamo un nuovo pericolo e quale possibile danno può arrecarci. La percezione individuale del rischio:

  • è influenzata da abitudini ed esperienze pregresse: l’individuo tende a sottovalutare i rischi connessi alle abitudini di lavoro (es. il mancato utilizzo di qualcosa), i rischi che si presentano quotidianamente e quelli a bassa probabilità;
  • si basa sull’esperienza personale o di altri

Vediamo cosa prevedono le precauzioni universali:

  • “lavaggio delle mani (lavaggio delle mani con acqua e detergente seguito da lavaggio antisettico ogni qual volta si verifichi accidentalmente il contatto con sangue e/o liquidi biologici e dopo la rimozione dei guanti);
  • uso dei guanti (devono essere sempre indossati quando vi è o vi può essere contatto con sangue e/o liquidi biologici);
  • uso dei camici e dei grembiuli di protezione (devono essere sempre indossati durante l’esecuzione di procedure che possono produrre l’emissione di goccioline o schizzi di sangue e/o liquidi biologici);
  • uso di mascherine, occhiali e copri-faccia protettivi (devono essere sempre indossati durante l’esecuzione di procedure che possono provocare l’esposizione della mucosa orale, nasale e congiuntivale a goccioline o schizzi di sangue e/o liquidi biologici e emissione di frammenti di tessuto);
  • eliminazione di aghi, bisturi e taglienti (devono essere maneggiati con estrema cura per prevenire ferite accidentali, non devono essere rincappucciati, disinseriti e piegati o rotti; devono essere eliminati in contenitori resistenti, rigidi, impermeabili, con chiusura finale ermetica e smaltiti come rifiuti speciali);
  • campioni biologici (vanno collocati e trasportati in contenitori appositi che impediscano eventuali perdite o rotture; il materiale a perdere che risulta contaminato da sangue e/o liquidi biologici deve essere riposto nei contenitori per rifiuti speciali; le eventuali manovre chirurgiche e/o endoscopiche su pazienti infetti devono essere inserite come ultime nella programmazione delle relative sedute)”.

DUE TIPI DI STRESS: BUONO E CATTIVO 

La pratica infermieristica spesso presuppone lavoro in ambienti stressanti, affrontare casi o situazioni deprimenti, adattarsi a vari turni di lavoro; l’infermiere deve riconoscere per primo lo stress personale e le sue manifestazioni.

Lo stress – termine introdotto in biologia da W.B. Cannon – è una risposta fisiologica a degli stressors (sollecitazioni) interni e/o esterni. Descritto come “stato di tensione emotiva, fisica e mentale”, può avere dei risvolti patologici anche cronici; per questo si è soliti fare una distinzione tra eustress e distress, rispettivamente stress buono e cattivo.

Immaginiamo una centrale di allarme neurologica che si attiva quando le aspettative non corrispondono alla realtà e si crea una condizione di “allostasi”: un cambiamento fisiologico che permette di adeguarsi alla vita. Fin qui, il campanello di allarme ha lanciato un messaggio positivo al corpo che ha risposto adattandosi (eustress).

Cosa succede quando si è sottoposti continuamente ad un carico di lavoro eccessivo o insoddisfacente? La grande quantità di stress determina un CA – Carico Allostatico – tradotto come l’incapacità di saper fronteggiare alle tante richieste e attese esterne (distress). Molto dipende dai fattori intra ed inter-personali, non tutti rispondiamo allo stress alla stessa maniera.

LA PSICOLOGIA DEL LAVORO 

Lo stress lavoro-correlato rappresenta una delle sfide principali con cui è necessario confrontarsi nel campo della salute e della sicurezza sul lavoro in quanto hanno considerevoli ripercussioni sulla salute delle singole persone. La psicologia del lavoro, o psicologia delle organizzazioni, è lo studio dei comportamenti delle persone nel contesto lavorativo e nello svolgimento della loro attività professionale in rapporto alle relazioni interpersonali, ai compiti da svolgere, alle regole e al funzionamento dell’organizzazione.

In altre parole, la psicologia delle organizzazioni ricava i modelli e le teorie della psicologia e li applica all’ambiente di lavoro, cercando di:

  1. favorire sia il massimo benessere per le persone che lavorano, sia il massimo vantaggio per l’organizzazione per cui lavorano;
  2. migliorare le condizioni psicologiche, la motivazione e i rapporti con gli interlocutori di ruolo, con l’azienda e con l’ambiente di lavoro in

La psicologia delle organizzazioni, quindi, utilizza molti degli aspetti propri della psicologia generale nell’ambito organizzativo-gestionale. I campi d’applicazione della psicologia delle organizzazioni sono soprattutto: la gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione, la formazione professionale, la comunicazione e i rapporti, le dinamiche di gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema di ricompensa, lo sviluppo della carriera.

LA PIRAMIDE DI MASLOW E LA MOTIVAZIONE DEI LAVORATORI 

La psicologia del lavoro considera la motivazione un fattore determinante per essere felici e produttivi professionalmente. Molte teorie, tra cui “la piramide dei bisogni” di Maslow, hanno cercato di definire i bisogni e come si coniughi la sfera personale con quella lavorativa. Secondo Maslow il comportamento delle persone, anche nel lavoro, è dettato dalla soddisfazione dei bisogni ordinati secondo una gerarchia basata su un ordine preciso. Partendo dal basso si trovano:

  • bisogni fisiologici legati alla sopravvivenza nell’immediato;
  • bisogni di sicurezza fisica ed emotiva che sostengono la sopravvivenza a lungo termine;
  • bisogni di appartenenza a un gruppo che sia supporto sociale a vario livello (lavoro, famiglia, gruppi di amici);
  • bisogno di stima;
  • bisogno di autorealizzazione.

Questa classificazione è stata molto utilizzata nel management ma presenta un punto debole, cioè che ciascuno avverte in modo personale l’urgenza di soddisfare i diversi bisogni. Ad ogni modo resta un utile punto di riferimento per motivare il personale.

CONCLUSIONE

Gli argomenti trattati in questa ricerca, incidono sulla qualità assistenziale erogata; parliamo di una professione che richiede tempestività, lucidità ed empatia e nel momento in cui decadono queste caratteristiche si avrà perdita di interesse e superficialità nei confronti delle persone assistite, atteggiamenti e sentimenti negativi, insensibilità e mancanza di comprensione.

La figura professionale dell’Infermiere è come un iceberg: da fuori si vede la punta dell’iceberg ma tutto quello che c’è sotto e che mantiene la punta fuori dall’acqua, nessuno lo nota. La gente è abituata a vedere e a sentire solamente quello che appare, la parte al di sopra della superficie, ma ciò è la parte più piccola, la punta dell’iceberg. Quella sottostante, invece, è di gran lunga più grande: fallimenti, paure, sacrifici, rischi, studio, hard work, burnout etc.

Probabilmente tutti cercano di mantenere la maggior parte dell’iceberg il più possibile sotto la superficie, ma il vero successo, nella sua forma completa è quello, non quello che si vede perché quello che si vede, senza quello che c’è sotto, non ci sarebbe.

“L’assistenza è un’arte; e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti. Anzi, la più bella delle Arti Belle.” (Florence Nightingale)

Cosimo Della Pietà
Mattia Aprile
Stefania Pastore
Natalia Porfido

 

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