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Compie 85 anni Giampiero Giron:“In sala operatoria mi ricordo ancora come si fa, la pensione è la morte civile”

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Compie 85 anni Giampiero Giron:“Non intendo andare in pensione, in sala operatoria mi ricordo ancora come si fa” 1
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Tra pochi giorni festeggerà il proprio 85° compleanno Giampiero Giron, storico anestesista dell’ospedale Villa Salus di Mestre (leggi articolo), e non sembra affatto essere intenzionato ad andare in pensione.

Il medico continua a recarsi regolarmente in sala operatoria per compensare la carenza di medici specialisti che affligge gli ospedali italiani.

«L’errore più banale comporta conseguenze catastrofiche, molti lasciano»

Mercoledì prossimo sarà il suo compleanno ma, nonostante ciò, entrerà in sala operatoria per garantire l’esecuzione degli interventi programmati o perché molti pazienti richiedono espressamente la sua presenza.

Lo specialista ha un curriculum che farebbe impallidire la maggior parte dei medici italiani: fu lui il 14 novembre 1985 ad addormentare Ilario Lazzari, il primo trapiantato di cuore in Italia, e a risvegliarlo dopo che il cardiochirurgo Vincenzo Gallucci gli avesse innestato il nuovo organo nel petto. È anche il fondatore dell’Istituto di anestesiologia e rianimazione dell’Università di Padova, e direttore sanitario dell’ospedale nel quale esercita.

Come docente universitario venne collocato a riposo nel 2010, ma ciò non lo fece desistere dal proseguire la propria opera in qualità di medico.

«Mi ricordo ancora come si fa, non capisco perché dovrei smettere di praticare anestesie».

Il camice bianco è sempre stato contrario al concetto di pensionamento, come ha ribadito in un’intervista rilasciata per il giornale “Il Corriere”.

«Per me non esiste. È la morte civile. Da millenni stimiamo la vita di un individuo attraverso un fenomeno astronomico anziché biologico: i giri che la Terra compie attorno al Sole. Sarebbe come voler misurare un litro di vino con il metro. Io non mi sento gli anni che ho. Chi ha fiato e testa deve lavorare fino all’ultimo. Mi capitò di richiamare all’ordine Elsa, la mia storica segretaria, per una distrazione. S’inalberò: “Professor, lu nol ga tempo gnànca de morir, ma mi go dirito de vìvar!”. È così. Chi lavora molto, non ha tempo per ammalarsi».

Come se ne esce?

«Sono nato a Padova ma cresciuto a Venezia, dalla mia casa alle Zattere mi gettavo direttamente nel canale della Giudecca, imparai a nuotare così. Applicherei perciò la regola della Serenissima: le spese relative alle magistrature sono a carico di chi le ricopre. Vuoi fare il doge? Ti paghi tutto. Il ricambio della classe dirigente sarebbe veloce e garantito».

Da quanti anni fa il medico?

«Mi sono laureato nel 1961. Nel 1963 entrai in ospedale a Padova, nella clinica chirurgica di Pier Giuseppe Cevese, il mio maestro. Lì conobbi Renato Ruberti, che andava a tenere corsi a Nairobi. Alla fine non tornò più: in Kenya aveva trovato il paradiso terrestre. Per cui chiesi a Piero Frugoni, direttore della Neurochirurgia, di prendermi in istituto al posto di Ruberti. Lui mi pose tre domande».

Quali?

«La prima: “Ha mezzi per mantenersi? Perché qui non vedrà una lira”. La seconda: “Deve fare la naia? Riduca il danno iscrivendosi ad Anestesia, sono due anni esatti”, anche allora latitavano gli specialisti in questa disciplina. La terza: “È fidanzato o coniugato? In tal caso dimentichi la carriera universitaria”. Non mi vergogno a dire che nel 1965 chiesi a Cevese il permesso di sposarmi».

Come mai c’è carenza di anestesisti?

«Bel mistero. Sono così tanti che dovrebbero bastare, io da solo ne ho laureati quasi 900. Non c’è stata un’epidemia, ergo significa che hanno cambiato mestiere. Perché? L’ho chiesto al mio amico Luigi Pavan, psichiatra. Secondo lui dipende dal fatto che, siccome controllano il tripode vitale formato dai sistemi nervoso, respiratorio e circolatorio, devono mantenere una soglia di attenzione altissima. L’errore più banale comporta conseguenze catastrofiche, dalla morte allo stato vegetativo persistente. Perciò molti preferiscono diventare odontoiatri: per sottrarsi a uno stress incessante, insopportabile».

E al professor Giron tocca sopperire.

«Il numero chiuso a Medicina ha completato il disastro. Un provvedimento insensato. Il mercato si regola da solo. Io aprirei il primo anno a chiunque, ma con cinque esami obbligatori: matematica, fisica, chimica, biologia, etica. Gli asini che non li superano cambiano mestiere. Purtroppo è andata perduta la severità. Ai miei tempi, all’esame di farmacologia il professor Egidio Meneghetti pretendeva che sapessimo a memoria 48 ricette di preparati galenici. Se ne sbagliavi una, ti congedava così: “Caro, fra me e lei c’è il malato che mi ordina di bocciarla. Le do 12 su 30, prego si accomodi”. Con quel voto non è che potevi ripresentarti la settimana successiva. Aspettavi un anno. E gli esami, badi bene, si facevano solo dalle 21 in avanti, per avere la certezza che i candidati fossero vigili anche a quell’ora. Io mi laureai a mezzanotte, per dire».

Ma non ha paura di sbagliare?

«No. Forse sarò presuntuoso, però mi sento molto sicuro».

Perché ha fatto il medico?

«Per obbedienza. Lo voleva mio padre. Fosse dipeso da me, avrei preferito dedicarmi alla fisica e all’astronomia. Ero in prima elementare quando un amico di famiglia, il medico Francesco Carnesecchi, mi prese sulle ginocchia e mi sussurrò all’orecchio: “Piuttosto che fare il mio mestiere, impiccati!”».

Bel viatico per la professione.

«Non c’era mica il Servizio sanitario nazionale, allora. Quando fui assunto alla Pia opera ospedale civile di Padova, sul contratto, alla voce orario di lavoro, c’era scritto: “Tanto quanto necessario”».

E come li addormentava i pazienti?

«Con la maschera di Ombrédanne, che conteneva un batuffolo di ovatta impregnato di cloroformio. Nausea postoperatoria assicurata. Nei bambini preferivo usare il trilene. Una volta fui mandato in un ospedale del Rodigino a coprire un’assenza e lo chiesi per un fanciullo di 10 anni con un’appendicite acuta. “Qui abbiamo solo il cloroformio, induco io l’anestesia e lei la mantiene”, tagliò corto il chirurgo. La suora mi diede di gomito e biascicò sottovoce: “El savesse quanti el ghe n’ha copà col cloroformio…”».
Spero che fosse solo una battuta macabra.

A lei è mai capitato che un paziente non si risvegliasse?

«In terapia intensiva è fatale che non sempre l’esito sia felice per chi arriva in ospedale con un grave accidente, ma non è certo colpa dell’anestesista. Le operazioni che vanno bene si dimenticano in poche ore, quelle che finiscono male mai. In 56 anni non ho subìto né provvedimenti disciplinari né richieste di risarcimento per imperizia».

Prima del cloroformio e del trilene, che cosa usavano gli anestesisti?

«L’alcol. Il paziente veniva ubriacato. Si narra che Ambroise Paré, chirurgo del re di Francia, nel Cinquecento li tramortisse a cazzotti, ma io ci credo poco. Nel dopoguerra arrivarono il protossido di azoto, un gas esilarante, e la morfina».

Oggi a quali sostanze ricorrete?

«Aboliti i barbiturici, si usano anestetici inalatori o endovenosi. Il Propofol dà euforia, cosicché il risveglio è piacevole. La grande novità fu il curaro, che procura anche rilassamento muscolare, consentendo al chirurgo di lavorare meglio».

Che certezza ha un malato di non sentire che lo stanno operando, come accade nel film «Anestesia cosciente»?

«Ci sono anche le anestesie vigili o subvigili, per esempio per controllare la risposta mentre s’interviene sul cervello. Il dolore si elimina con il Fentanyl, che è 100 volte più potente della morfina. Purtroppo è diventato una droga da abuso e dà l’oblio del respiro. Michael Jackson è morto in questo modo: se l’è iniettato in vena e si è dimenticato di respirare».

Come li salvi tossicomani simili?

«Un metodo ci sarebbe. A Singapore si applica agli spacciatori: niente carcere, solo frustate. Il dolore si memorizza nel cervello e impedisce le recidive. Ma dubito che verrà mai applicato in Italia».

Lo credo bene.

«Deve scusarmi. Sono figlio di un’epoca in cui vigeva il rigore più assoluto. Oggi invece i genitori insultano i docenti e ricorrono al Tar se gli bocci i figli».

Il chirurgo Riccardo Arone di Bertolino mi ha raccontato che il medico James Esdaile nell’Ottocento operò a Calcutta 300 indiani anestetizzati con l’ipnosi.

«Non c’è da fidarsi. Ottunde la risposta cerebrale ma non la domina del tutto».

Ma l’anestesia blocca i centri del dolore o quelli della coscienza?

«Entrambi».

Jean-Martin Charcot sperimentò l’ipnosi sulle suore. Se metteva nelle loro mani un sasso rovente, non si lamentavano. Ma se sollevava la loro tonaca, si ridestavano subito. Perciò le chiedo: quale organo controlla la coscienza?

«Eh, eh, difficilissimo rispondere a questa domanda. Non ho cognizioni sufficienti per affermare che sia il lobo frontale. So che taluni studi dimostrano come il cervello comandi una certa azione prim’ancora che l’individuo abbia coscienza di ciò che succede».

Costa cara un’anestesia?

«Non direi».

Allora perché non si pratica di routine nelle gastroscopie anziché infliggere alla gente il trauma di un tubo in gola?

«È lo specialista che costa, non la sedazione blanda. Io la facevo a tutti. Per risparmiare, aggiravo l’ostacolo utilizzando gli specializzandi del quinto anno».

Si assumeva un bel rischio.

«Calogero Nicolosi, direttore della clinica chirurgica di Palermo, mi diceva: “Chi esercita il potere, ha il dovere di abusarne. Altrimenti a che gli serve?”».

Simone Gussoni

Fonte: il corriere.it

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