E’ quanto emerge da uno studio condotto dall’israeliano Jacob Lavee, chirurgo e direttore dei trapianti dell’ospedale Sheba Medical Center di Tel Aviv, e dall’australiano Matthew Robertson, esperto del Victims of Communism Memorial Foundation.
Secondo uno studio accademico citato dal Wall Street Journal, nelle carceri cinesi sarebbero stati sistematicamente espiantati organi da donatori vivi, ovvero non ancora cerebralmente morti. Si tratterebbe per lo più di detenuti condannati a morte, o addirittura uccisi mediante l’espianto degli organi vitali. La presunta pratiche illegale riguarda casi documentati fino al 2015, anche se c’è il sospetto che sia stata usata in Cina anche in tempi più recenti, anche se Pechino nega.
Lo studio è stato condotto dall’israeliano Jacob Lavee, chirurgo e direttore dei trapianti dell’ospedale Sheba Medical Center di Tel Aviv, e dall’australiano Matthew Robertson, esperto del Victims of Communism Memorial Foundation. L’analisi ha riguardato 125mila pratiche di donazione ed è stata pubblicata all’inizio dello scorso aprile sulla rivista specializzata American Journal of Transplantation. Gli scienziati sono giunti alla conclusione che i chirurghi cinesi hanno violato la regola internazionale sulle donazioni dopo la morte, che proibisce l’espianto gli organi vitali da una persona non dichiarata ufficialmente morta, in morte cerebrale o non consenziente. La regola sarebbe stata violata per ben 71 volte in un arco di tempo di 35 anni in altrettanti ospedali sparsi in 33 città di 15 province cinesi.
Il professor Lavee ha dichiarato a Haaretz che gli esiti della ricerca rappresentano la “pistola fumante” degli espianti illegali compiuti in Cina, che fino a questo momento erano sempre stati oggetto di sospetti, ma mai suffragati da prove. I 71 casi verificatisi in un arco di tempo così ampio e in luoghi diversi, sostiene lo studioso, sono “la prova che non si tratta di casi isolati o temporanei: deve trattarsi di una politica”.
Sempre secondo Lavee, “trapiantare organi da una persona sottoposta all’esecuzione il cui cervello è morto, ma il cui cuore ancora batte, richiede un complesso e delicato coordinamento fra il boia e il chirurgo per mettere al sicuro l’organo”. I documenti analizzati dallo studio mostrano che i medici cinesi “hanno partecipato all’esecuzione per evitare di perdere l’organo per mancato coordinamento”.
L’altro autore della ricerca, il professor Robertson, va anche oltre, sostenendo che nei 71 casi segnalati “la rimozione del cuore nell’espianto deve essere stata la causa diretta della morte del donatore”. E aggiunge: “Poiché questi donatori di organi possono solo essere stati detenuti, i risultati della nostra ricerca suggeriscono con forza che medici nella repubblica popolare cinese hanno partecipato alle esecuzioni espiantando il cuore”.
Nell’articolo apparso sul Wall Street Journal i due ricercatori scrivono che i 71 casi rappresentano “una piccolissima parte di una grande popolazione nascosta”. Migliaia di documenti sono stati pubblicati in Cina “sul trapianto di cuore e polmoni, ma la maggior parte non dice nulla di come sia stato trattato il donatore”, aggiungono.
Lavee e Robertson affermano che i documenti come quelli da loro analizzati sono stati scoperti da ricerche di routine nel 2014 e che per le autorità cinesi dove essere stato facile mettere a tacere queste informazioni, aggiungendo che la partnership di Pechino con l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha probabilmente frenato il potenziale scandalo mondiale.
Redazione Nurse Times
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