Il chirurgo 37enne Samuel Mancuso ha parlato all’agenzia Dire dell’approccio bloodless, nato dal credo religioso dei testimoni di Geova.
Samuel Mancuso è un giovane chirurgo che opera a cuore aperto senza sangue. Ha 37 anni e un curriculum che lo ha portato dal Maria Pia Hospital di Torino, dove si è formato come specializzando, ad operare a Houston negli Stati Uniti. Oggi è al San Donato di Milano, reparto di cardiochirurgia mini-invasiva, diretto dal dottor Marco Diena, e come massimo esperto dell’approccio bloodless, maturato anche attraverso la storia e la cultura del risparmio del sangue del Maria Hospital di Torino, ha teorizzato un vero e proprio protocollo a riguardo.
Una scelta, quella della medicina senza sangue, nata dal credo religioso dei testimoni di Geova, che già anni fa evidenziava benefici per i pazienti, e che oggi è diventata una strategia validata dalla comunità scientifica e dalle linee guida. Eppure c’è un mondo medico che fa ancora resistenza.
“La trasfusione è uno tra i trattamenti medici tra i più abusati nella comunità scientifica – spiega il cardiochirurgo all’agenzia Dire – anzi direi che è l’unico trapianto che un medico può prescrivere da solo con una semplice firma. Per gli organi solidi abbiamo comitati, valutazioni mutlidisciplinari, mentre per l’organo liquido sangue si sfugge allo standard del trapianto“. E proprio come per tutti i trapianti la trasfusione “come dimostrato dagli studi scientifici ha un effetto immunodepressivo e le problematiche spesso superano i benefici. Trasfondere meno- ribadisce ancora- è spesso la risposta migliore ed è meglio essere restrittivi”.
Di fronte ad un paziente quindi bisogna avere, secondo Mancuso, “un approccio che non sia solo difensivo riguardo al valore numerico dell’emoglobina, ma valutare la clinica del paziente caso per caso” La famosa medicina personalizzata di cui sentiamo parlare sempre è anche questa: il “rispetto del patrimonio ematico del paziente, in linea con l’approccio mini-invasivo”. Perché ancora molti medici facciano resistenza, secondo il cardiochirurgo, si spiega con una lacuna di formazione che è tema che tocca tutta la medicina internazionale. “Mi occupo di decine di pazienti ogni anno ‘senza sangue’ e la casistica del Maria Pia hospital, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, riporta circa 250 pazienti. Aumentano peraltro quei pazienti che chiedono di non essere trasfusi per motivi scientifici e non per credo religioso“.
D’altro canto Mancuso spiega che un conto è l’approccio solidale del donatore, ma diverso deve essere quello sanitario. Passi avanti nella formazione ci sono, anche grazie a impegni accademici come quello del master di II livello della Sapienza di Roma dedicato al ‘patient blood management’, se pensiamo che spesso “un medico arriva a laurearsi senza neanche una sola lezione di medicina trasfusionale”, sottolinea il cardiochirurgo. “Vogliamo essere sicuri che prima di una terapia di trapianto aiutiamo il sangue a funzionare al meglio e solo quando tutti i presidi terapeutici non sono stati in grado di agire e l’organo è insufficiente allora si procede a trasfusione. È una strategia non solo di risparmio per l’economia sanitaria, ma per i risultati che dà al paziente”, ribadisce.
È in questo ambiente che il cardiochirurgo si è formato ed è questo, come spiega nel corso dell’intervista, che influenza quasi sempre l’orientamento e la sensibilità dei sanitari sulla materia sangue. “Ho trovato questa cultura del risparmio di sangue che al Maria Pia Hospital c’era sin dagli anni 90, mi sono appassionato e ho confrontato con quanto si faceva in centri internazionali di fama, tra cui Houston, per capire quali tecniche e quali vantaggi ci fossero per i pazienti”. L’Italia ha una legge sul ‘patient blood management’ ma, come ricorda il medico, tante sono le differenze territoriali nel nostro Paese e le “corde emotive” dei medici che possono essere toccate nonostante le linee guida scientifiche parlino ormai chiaro.
Mancuso nel corso dell’intervista ha riportato i numeri emersi da un report australiano, “l’articolo più scaricato della rivista Transfusion nel 2017 che è una pietra miliare del bloodless. Riporta i risultati di 6 anni di programma su una riduzione del 40% di emocomponenti, ed ecco alcuni dei risultati emersi- spiega- un 15% meno di degenza, un meno 30% di accessi per ictus o infarto e un 20% in meno di infezioni ospedaliere”. Del resto, spiega l’esperto, “una chirurgia attenta e precisa fa scarso utilizzo di trasfusione, mentre una disordinata e sanguinolenta ne fa tanto uso”.
Numeri che fanno tanto effetto insieme ai ricordi. Mancuso ogni primo gennaio riceve puntuale la telefonata di quell’uomo che aveva una dissezione aortica ma esprimeva dissenso a trasfusione. Un caso tragico, un’emergenza estrema. Da Napoli fu portato a Torino dove grazie a un lavoro di squadra, ricorda il chirurgo, è stato salvato. “Quel giorno – questo ciò che l’uomo gli ricorda ogni volta – dovevo morire dottore e invece sono qui, sto bene e posso godere della mia famiglia”.
Redazione Nurse Times
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