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Milano: addio a Giuseppe Spadaro, l’infermiere dei malati di Sla

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Milano: addio a Giuseppe Spadaro, l’infermiere dei malati di Sla
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Se avessi conosciuto la sua storia e fossi stata in tempo per contattarlo, queste righe avrebbe avuto un altro taglio. In molte storie e in molte occasioni vissute ne ho avuto la conferma: alcune storie devono giungerci nei modi che non ci aspettiamo.

Giuseppe Spadaro è un infermiere milanese di 52 anni. Più di un anno fa gli diagnosticano la Sla. E di Sla Giuseppe Spadaro se ne sarà certamente occupato e ne avrà assistito i pazienti affetti all’ospedale San Luca dell’Auxologico di Milano. 

Venuto a conoscenza della diagnosi, rifiuta i dispositivi invasivi e di arrivare al suo momento con tutto il fiato che gli resta, rifiutando anche il respiratore. Una forza che, leggendo le parole e le testimonianze di chi lo conosce, mi sembra sin da subito sovrumana.

Si immaginava di svegliarsi guarito, perché chissà quanti progetti aveva in serbo nel suo cuore, la sede primaria in cui si originano le idee.

Leggendo l’ultimo post è tangibile non solo la stanchezza, ma anche la lotta che disarma, che lascia senza fiato.

Alcuni suoi colleghi in dicembre avevano aperto una piattaforma di raccolta fondi per la sua famiglia. Anche Fondazione Auxologico aveva lanciato una sottoscrizione ufficiale estendendola a tutto il personale: «Giuseppe ha dimostrato con i fatti che non siamo costituiti solo di materia, di carne che va incontro alla sofferenza, ma anche di Qualcos’Altro, in grado di sostenerci e illuminarci nei momenti più duri dell’esistenza terrena. Se questo Qualcos’Altro lo si voglia cercare nel profondo del nostro essere».

Sono convinta che Giuseppe sia proprio un bel chicco di grano e che stia portando tanta speranza a chi sente che, a causa della malattia che sta vivendo, non ci sia più nulla da fare.

Era questo ciò che diceva negli ultimi mesi ai colleghi di MonzaToday: “Bisognerebbe supportare di più, soprattutto a livello economico, le persone affette da queste patologie con prognosi infausta. Ma anche la certezza delle cure palliative a domicilio è da potenziare su tutto il territorio italiano, non solo nelle regioni più organizzate. Perché un’assistenza domiciliare ben fatta fa sentire meno solo il paziente”.

Credo che abbia ragione senza alcun’ombra di dubbio: le cure sono accoglienza, inclusione, ascolto, presa in carico e non isolamento, esclusione, solitudine. E lui è stato il più grande esempio di impegno umano conferendo prestigio e riconoscimento sociale al nostro lavoro attraverso la sua vita personale e professionale.

Anna Arnone

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