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L’uso delle immagini di risonanza magnetica nello studio dell’Alzheimer

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L’uso delle immagini di risonanza magnetica nello studio dell'Alzheimer 1
Someone is erasing a drawing of the human brain. Conceptual image relating to dementia and memory loss. Digital illustration.
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La malattia di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa irreversibile che comporta la graduale perdita di funzioni verbali, logiche e cognitive a causa di un deterioramento del tessuto cerebrale

Essa rappresenta la maggior parte dei casi di demenza nei soggetti con età superiore ai 65 anni. Le aree cerebrali deputate alle funzioni mnemoniche sono le prime ad atrofizzarsi nell’Alzheimer e per questo la perdita di memoria è la manifestazione più comune e più drammatica.

Attualmente non è possibile né prevenire né curare l’Alzheimer; tuttavia negli ultimi anni la ricerca scientifica ha permesso di individuare alcuni importanti biomarcatori utili per monitorare il decorso della malattia.

Un biomarcatore è una sostanza od un parametro quantitativo utilizzato quale indicatore di un particolare stato biologico. Nel caso specifico dell’Alzheimer vi sono i marcatori legati alla analisi chimica del fluido cerebrospinale (ad esempio gli studi sul beta-amiloide) e quelli derivanti da analisi di immagini cerebrali (neuroimaging).

Per questa ragione negli ultimi anni le neuroimmagini e gli scienziati esperti del settore stanno giocando un ruolo sempre più importante nella lotta a questa malattia.

Le immagini di risonanza magnetica cerebrale contengono una serie di informazioni eterogenee che alle volte possono diventare molto complesse, si passa per esempio dal volume di un determinato distretto anatomico sino alla curvatura media di un solco.

Queste informazioni sono registrate in immagini tridimensionali in livello di grigio composte da milioni voxel (l’analogo 3D del pixel cui siamo certamente più familiari) per una risoluzione tipicamente dell’ordine del millimetro cubo.

A seconda del tipo di sequenza usata, la materia grigia cerebrale, la materia bianca e il fluido cerebrospinale appaiono in diverse intensità di grigio e sono riconoscibili ad occhio nudo su un’immagine standard.

L’uso delle immagini di risonanza magnetica nello studio dell'Alzheimer
In figura, da sinistra a destra tre esempi di sequenze MRI differenti: T1, T2 e Flair.

 

Alterazioni del tessuto cerebrale dovute a vari insulti, ad esempio infiammazione, infarto, o malattie neurodegenerative, si traducono nelle immagini di risonanza in aumenti o diminuzioni dell’intensità di grigio.

La neurodegenerazione, il processo patologico alla base dell’Alzheimer e di altre malattie, tipo il morbo di Parkinson, è un processo di progressiva morte neuronale con perdita di volume del cervello, sia globalmente, che in determinate regioni.

La perdita di volume cerebrale prende il nome di atrofia; in un cervello atrofico il parenchima cerebrale si assottiglia, i solchi si approfondiscono, il fluido cerebro-spinale si espande e i ventricoli si allargano.

Purtroppo, in tutti i disordini neurodegenerativi l’atrofia si manifesta 10-20 anni dopo l’inizio della malattia, quando i sintomi clinici sono già manifesti. Qualsiasi terapia capace di modificare il corso della malattia, dovrebbe essere somministrata nelle fasi pre-cliniche precedenti la accelerazione della cascata neurodegenerativa, parecchi anni prima della comparsa delle prime manifestazioni.

E questa è proprio la sfida lanciata dal neuroimaging: utilizzare tecniche avanzate di analisi di immagine per identificare le prime, impercettibili, alterazioni cerebrali prima che diventino visibili ad occhio nudo.

Un team di ricercatori dell’Università degli studi di Bari e della locale sezione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, composto da Nicola Amoroso, Marianna La Rocca, Stefania Bruno, Alfonso Monaco, Tommaso Maggipinto, Roberto Bellotti e Sabina Tangaro hanno messo a punto un algoritmo di supporto alla diagnosi che promette di fornire alla ricerca in questo campo un ulteriore impulso verso la comprensione della malattia di Alzheimer e di altre malattie neurodegenerative.

Machine learning e immagini mediche

L’uso delle immagini di risonanza magnetica sta letteralmente rivoluzionando il panorama mondiale nel campo delle neuroscienze.

Un volume sempre crescente di dati viene messo a disposizione di ricercatori di tutto il mondo ma pone dei problemi scientifici e tecnologici che la comunità delle neuroscienze da sola non ha gli strumenti per affrontare.

Stiamo parlando di “big data”, stiamo parlando della necessità di maneggiare migliaia di immagini di risonanza magnetica in parallelo, di analizzarle, conservarle, processarle.

In questo solco si inseriscono le competenze di fisici e tecnologi che da sempre sono abituati a gestire enormi quantità di dati, basti pensare agli esperimenti mondiali di fisica delle alte energie. L’accesso ai moderni super-computer offre oggi delle soluzioni che anche solo dieci anni fa non era possibile neanche immaginare.

Alcune delle questioni più sfidanti riguardano una maggiore comprensione del cervello e del suo funzionamento; evidentemente a questo aspetto è intimamente legata la nostra speranza di poter sviluppare farmaci o terapie che aprano le porte a possibili cure per malattie come l’Alzheimer ad oggi incurabili.

Per la prima volta nella storia, questi obiettivi sembrano essere alla nostra portata: non è infatti un caso che questi anni abbiano visto la progettazione e il finanziamento di iniziative mondiali nell’ambito delle neuroscienze computazionali, come ad esempio lo Human Brain Project e la Brain Initiative finanziati rispettivamente dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.

Molti approcci diversi, soprattutto utilizzando le tecniche di machine learning, sono stati applicati in questi anni allo scopo di diagnosticare l’Alzheimer e il suo stadio prodromico.

Le tecniche di machine learning consentono lo sviluppo di sofisticati ed automatici modelli di classificazione che partendo dai complessi dati di risonanza magnetica arrivino alla determinazione di criteri oggettivi e quantitativi che monitorino la stadiazione o predicano l’insorgere della malattia.

È evidente che sintetizzare l’informazione contenuta in una scansione cerebrale in un singolo numero rappresenta una sfida formidabile. D’altronde, questo è un obiettivo necessario al raggiungimento di una medicina sempre più personalizzata e dedicata alla soggettività del paziente, per questo studi di machine learning applicati alle neuroscienze, seppur con molta fatica, stanno prendendo piede e offrendo spunti sempre più interessanti.

L’algoritmo messo a punto dai ricercatori Pugliesi

Negli ultimi anni ha preso sempre più piede l’idea che il cervello sia un organo la cui complessità possa essere descritta attraverso una rete fatta di nodi e connessioni al pari di sistemi molto diversi e distanti tra loro come le reti di trasporti (aeroportuale, ferroviario, navale, …) o le reti sociali (Facebook, Twitter, …).

L’idea sottesa da tali approcci è che si possa guardare al cervello come alla rete viaria di una metropoli estremamente trafficata dove, “incidenti” sparsi nella rete hanno un effetto diretto sulla “viabilità”: questi sono fuor di metafora gli effetti di una malattia neurodegenerativa sul cervello.

L’idea del gruppo di ricerca barese è stata quella di suddividere la testa di ogni soggetto presente nello studio in box rettangolari di dimensione variabile e immaginare che queste fossero connesse le une alle altre in funzione di quanto simile era il loro contenuto in termini di materia grigia, bianca e fluido cerebrospinale.

Studiando le connessioni presenti in ciascun cervello e confrontando le reti di diversi soggetti sono emerse differenze significative tra soggetti sani e malati di Alzheimer.

In particolare, l’algoritmo messo a punto dai fisici ha evidenziato che in regioni particolari della rete cerebrale, come ad esempio quelle ippocampali, l’intensità delle connessioni cerebrali diminuisce passando dalla popolazione sana a quella malata.

Ancor più importante, queste differenze si rivelano molto presto, tanto che è possibile stimare (con un’accuratezza dell’84%) nei soggetti affetti da lieve indebolimento cognitivo se insorgerà la malattia, fino a 9 anni di anticipo.

Questa descrizione confronta per qualsiasi coppia di regioni cerebrali della rete se è presente o meno una connessione: può capitare infatti che in un soggetto due regioni sano connesse e in un altro soggetto no.

In effetti, una delle ipotesi su cui si basa l’algoritmo proposto dai ricercatori è proprio che l’effetto della neurodegenerazione dovuta ad una malattia modifichi la presenza di talune connessioni e possa quindi diventare un marcatore della malattia stessa.

Purtroppo, osservare che alcune connessioni siano presenti oppure no è solo una delle migliaia di caratteristiche fisiche che è possibile misurare a partire dal modello di rete sinora descritto. Per poter tenere in conto l’effetto di tutte queste misure e costruire un modello che consenta di distinguere gli effetti della malattia è necessario l’ausilio della cosiddetta “intelligenza artificiale”.

Conclusioni

Il lavoro condotto dal gruppo di fisica medica dell’Università degli studi di Bari e dalla locale sezione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ha proposto un approccio innovativo basato sulle reti complesse, una elegante e astratta teoria matematica, per caratterizzare le variazioni strutturali all’interno del cervello legate a processi neurodegenerativi.

Il gruppo ha investigato il contenuto informativo fornito da tale modello e grazie ad esso è riuscito a fornire una discriminazione accurata dei cervelli “malati” da quelli sani.

La ricerca può vantare dei risultati importanti: innanzitutto i ricercatori hanno dimostrato che esiste per la malattia di Alzheimer una dimensione intrinseca, una scala privilegiata che caratterizza la malattia; se questo risultato dovesse confermarsi ed essere validato anche con altre patologie i potenziali sviluppi sarebbero importanti, poiché il metodo proposto dai ricercatori baresi sarebbe in grado non solo di mettere in luce i segni precoci di una malattia neurodegenerativa ma anche attribuire a quale malattia specificatamente essi andrebbero attribuiti.

Altro risultato di rilievo è la capacità del metodo di evidenziare in modo accurato quali regioni cerebrali siano maggiormente interessate dagli effetti della malattia nelle fasi precoci.

Questo può essere utile per approfondire la conoscenza dei fattori che influenzano le modalità di propagazione dell’atrofia in diversi soggetti o nelle diverse malattie neurodegenerative.

Anche questo risultato, in prospettiva, promette sviluppi interessanti nel senso che esso potrebbe a sua volta suggerire in quali regioni del cervello si manifestano le modifiche più drammatiche e conseguentemente potrebbe essere interessante investigare clinicamente, per esempio, a quali funzioni siano deputate le regioni anatomiche indicate magari in tal senso il metodo potrebbe aiutare a far luce su meccanismi patologici ancora poco chiari.

Infine, l’accuratezza con cui il metodo sembra distinguere un cervello sano da uno malato, o affetto da lieve indebolimento cognitivo, è sicuramente un fattore di grande interesse per le possibili ricadute terapeutiche.

Vale la pena ricordare che ad oggi la malattia di Alzheimer non è ancora diagnosticabile con assoluta certezza in vivo e che, anche laddove lo fosse, sarebbe certamente fondamentale giungere con il più largo anticipo possibile alla diagnosi onde evitare che i processi neurodegenerativi abbiano già arrecato danni irreparabili.

 

 

Grazia Di Ceglie

 

 

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