Sempre più spesso ricevo notizia di come, le organizzazioni aziendali o gli stessi lavoratori utilizzano in modo improprio l’applicazione di messaggistica istantanea WhatsApp. Vediamo insieme, pertanto, di aiutare a comprendere le potenzialità e i pericoli professionali insiti in questo applicativo ormai diffusissimo.
Intanto, merita sottolineare come, da un punto di vista probatorio la giurisprudenza di merito (vedi sentenza n. 231/17 del 10 marzo 2017 del Tribunale di Ravenna), ha avuto definito i messaggi WhatsApp come delle vere e proprie prove documentali, rientranti nella disciplina dell’art. 2712 c.c., la quale identica come oggettivi mezzi di prova, utilizzabili in giudizio, le “riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fotografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, (…)” nel caso in cui non ne venga contestata la conformità ai fatti o alle cose a cui si riferiscono, da parte del soggetto nei confronti del quale vengono ad essere prodotte.
Anche se, qualche mese dopo, la sezione lavoro del Tribunale di Milano – Sezione Lavoro afferma che, per suffragare la validità dei messaggi di WhatsApp, vi sia la necessità di acquisizione del supporto informatico (smartphone o computer) contenente la conversazione non considerando sufficiente la sola e semplice produzione di stampe in assenza dell’apposito supporto informatico contenente le registrazioni oggetto della contesa.
Ai fini della valenza giuridica dei messaggi WhatsApp, merita richiamare la sentenza del Tribunale di Catania – Sezione Lavoro, 27/06/2017 chiamato ad esprimersi sulla validità di un licenziamento intimato via WhatsApp-
In quella sede veniva confermata l’idoneità di tale licenziamento, visto che il datore di lavoro aveva assolto all’onere della forma scritta prescritto dalla legge, in particolare nel caso in cui non venga contestata la provenienza della comunicazione dal datore di lavoro. Tra l’altro, nel caso in esame, il lavoratore aveva dato ulteriore certezza alla comunicazione avvenuta con tale mezzo, ricorrendo ad una successiva impugnazione stragiudiziale.
Altro aspetto necessario per identificare la validità di tale mezzo è che il datore di lavoro abbia la certezza e la possibilità di provare che la comunicazione sia effettivamente arrivata al destinatario. Sappiamo che, a meno di modifiche nelle impostazioni dell’app, le caratteristiche di WhatsApp consentono, a seconda delle spunte
che appaiono lateralmente al messaggio, di stabilire se questo sia stato o meno consegnato e se sia stato letto dal destinatario, indicando, addirittura, la data e l’ora della ricezione e della lettura.
Allo stesso modo, l’utilizzo di WhatsApp per la comunicazione dell’assenza per malattia è stato ritenuto un canale di trasmissione idoneo per tale finalità in quanto “(…) i messaggi di WhatsApp sono considerati idonei anche più di una raccomandata o di un sms” (sentenza Tribunale di Roma, n. 8802/2017).
Ovviamente, in questo caso dovranno essere definite le regole organizzative atte a rendere correttamente fruibile questo tipo di organizzazione, con particolare attenzione anche ai modi e ai tempi di informazione circa il numero aziendale a cui inviare il messaggi, oltre ad eventuali variazioni di numero personale e aziendale, al fine di evitare discussioni circa il corretto o mancato recapito dei messaggi.
E’ auspicabile, però, che specialmente in ambito di procedura disciplinare, siano utilizzati mezzi canonici, come la famosa raccomandata a/r o, innovativi, come la posta elettronica certificata (P.E.C.), ormai obbligatoria per tutti i professionisti iscritti a collegi od ordini.
Abbiamo visto, pertanto, che è possibile inviare comunicazioni tramite WhatsApp, addirittura per comunicare il licenziamento ma, dal momento che, la prova di validità è SEMPRE la certezza del ricevimento e della lettura dello stesso da parte del lavoratore, è sufficiente utilizzare alcune accortezze per evitare che anche questa applicazione possa rivelarsi un problema.
Carmelo Rinnone
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