L’ultima mutazione del coronavirus, pur essendo molto contagiosa, spesso si presenta in forma simile ai comuni malanni di stagione.
La variante Omicron è cinque volte più contagiosa, ma stando ai primi dati sembra carateterizzata da sintomi lievi (talvolta simili a quelli del comune raffreddore), soprattutto se paragonati a quelli tipici della variante Delta, e portare a una forma di coronavirus meno grave. Negli Stati Uniti, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) hanno segnalato anche un aumento dei casi di influenza. Il rischio di confondere i sintomi, quindi, aumenta, e un tampone diventa determinante per stabilire la causa e distinguere il SARS-CoV-2 dai virus che possono causare altri malanni stagionali.
Il professor Tim Spector, scienziato di riferimento dell’app ZOE COVID, molto nota nel Regno Unito, ha tracciato un quadro della situazione su Newsweek: “E’ chiaro al momento che se ci soffermiamo su aree con alto tasso di contagi Omicron, ma anche a livello nazionale, vediamo un quadro in cui non dominano i classici sintomi Covid”.
Sulla base di casi Covid registrati a Londra tra ottobre e dicembre i sintomi più comuni riportati e archiviati dall’app sono stati naso che cola, mal di testa, stanchezza, starnuti e mal di gola. Sintomi, insomma, associabili ai malanni non-Covid accusati in ogni Paese da milioni di persone, in particolare tra i bambini nel periodo invernale e primaverile. Secondo i Cdc, il recupero dalle comuni malattie da raffreddamento avviene nel giro di dieci giorni. Le persone immunodepresse o affette da asma e patologie respiratorie, però, rischiano di arrivare a sviluppare malattie più serie, come la polmonite.
Anche uno studio condotto in Inghilterra dall’Imperial College nelle prime due settimane di dicembre pare confermare che Omicron porta sintomi meno gravi della variante Delta. I numeri variano a seconda dei criteri di inclusione usati per i ricoveri: ci sarebbe un rischio più basso del 40-45% in caso di ricoveri di uno o più giorni, e tra il 15 e il 25% nei casi generici di arrivo in ospedale. Nel quadro generale il minor rischio di ospedalizzazione va però bilanciato col pericolo più elevato di contagio causato dalla variante in sé e dalla minore copertura data dalla vaccinazione. Il pericolo di finire in ospedale con Omicron scende della metà per chi è già stato contagiato da altra variante e ha quindi un’immunità naturale al virus. Il rischio di ospedalizzazioni lunghe scende invece del 61%.
Al momento i sintomi paiono anche lievemente differenti a seconda di altri elementi. Secondo i numeri diffusi dal più grande assicuratore sanitario privato del Sudafrica, ad esempio, la popolazione del Paese svilupperebbe mal di gola e prurito, uniti a dolori muscolari (soprattutto lombalgia), congestione nasale e tosse secca. Sintomi che tuttavia si ritrovano anche nel ceppo originario di Sars Cov-2 e in Delta, nota Ashley Z. Ritter, professore a contratto presso l’Università della Pennsylvania e amministratore delegato di Dear Pandemic. E dato che Omicron circola solo da tre settimane, aggiunge, «è ancora troppo presto per dire che ci siano differenze nei sintomi tra la variante di Omicron e le versioni precedenti».
Alla fine è più probabile che i sintomi di Omicron e Delta di assomiglino che il contrario. «Probabilmente c’è un’enorme quantità di sovrapposizione tra Omicron e le varianti precedenti, perché essenzialmente stanno facendo la stessa cosa», dice Otto O. Yang, medico esperto di malattie infettive all’Università della California, Los Angeles, David Geffen School of Medicinale: «Se ci sono differenze, probabilmente sono abbastanza sottili».
Tra i sintomi meno diffusi della Omicron, caratteristici invece di altre varianti, figurerebbe poi la perdita di gusto e olfatto. Secondo lo stesso studio, nel 48% delle persone contagiate dal coronavirus “iniziale” si registra la perdita dell’olfatto e nel 41% quella del gusto. Nel caso di un piccolo focolaio di Omicron studiato in Norvegia la perdita del gusto si è rilevata solo nel 23% dei pazienti e quella dell’olfatto in ancora meno persone, il 12%.
A causare questa differenza, però, potrebbe non essere la variante, bensì lo stato di vaccinazione. Secondo Maya N. Clark-Cutaia, docente presso il Meyers College of Nursing della New York University, i pazienti vaccinati, con Delta o coronavirus originale, tendono a presentare mal di testa, congestione, pressione sinusale e dolore sinusale, mentre quelli non vaccinati hanno più possibilità di soffrire di respiro corto, tosse e sintomi simil-influenzali.
Infine l’ultima variante avrebbe un tempo di incubazione più breve: basterebbero tre giorni dall’esposizione per eventualmente manifestare i sintomi, diventare contagiosi e risultare positivi. Con Delta e ceppo originario erano dai quattro ai sei, ha affermato il dottor Waleed Javaid, direttore della Prevenzione e controllo delle infezioni al Mount Sinai Downtown di New York City.
Redazione Nurse Times
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