È quanto emerge anche da uno studio condotto in Florida su 251 ospedali.
Ho letto in questi giorni la notizia apparsa sulla testata giornalistica Nuovo Quotidiano di Puglia – Lecce del 9 novembre scorso a pag. 25, in cui si vuole focalizzare l’attenzione sui gravi problemi organizzativi all’interno del Distretto Sociosanitario di Casarano, in particolar modo riguardo al personale infermieristico. Le organizzazioni sindacali puntano il dito sulla cattiva gestione del carico di lavoro. Il personale è già esiguo, con l’acqua alla gola e oberato di lavoro cerca di districarsi nel compimento del proprio lavoro, in balia di querele e denunce, a discapito dello stato di salute (e aggiungo sopratutto della salute dei pazienti). Di conseguenza: assenze per malattia e ricorso a prestazioni di P.S., supporto psicologico, “scomodano” la psicologia del lavoro e CUG (Comitato Unico di Garanzia), ma invano.
Burn-out? Mobbing? Una situazione, insomma, già precaria da molti mesi, favorita sembra anche da una “inattività risolutiva” del Direttore del DSS, che potrebbe fare di più. La situazione, quindi, non è di buon auspicio. Servono misure veloci ed efficaci per risollevare le sorti del servizio, ristabilendo un equilibrio logistico. Serve un piano ad hoc, serve un immediato e mirato impegno, ma non serve assolutamente che qualcuno scopra, come si suol dire, l’acqua calda.
In uno scenario di ben avviato assestamento ospedaliero, di riallocazione di personale (pensando modestamente od egoisticamente solo a quello infermieristico), di accertamento conclamato di carenza di assistenza sanitaria di cui sono piene le cronache dei media, sfido chiunque a continuare a voler ottenere risultati semplicemente con pensieri campati in aria. La questione è che si sta allontanando sempre di più la sanità dall’utente.
Si taglia e si spremono drasticamente le pochissime risorse disponibili, facendo ricadere la responsabilità di cura solo ed esclusivamente sul paziente, che si lancia disperatamente alla ricerca di una “magia” per la propria malattia, ricorrendo quasi a un “obbligo di auto-diagnosi”, costringendolo al classico turismo sanitario anche ormai per andare a partorire. La responsabilità di uno standard ottimale di sanità, o meglio di salute, non può gravare sulle spalle dei pochi rimasti a risollevare le sorti della “baracca”. Non si può risparmiare sulle persone che si occupano di cura.
Ma veniamo al punto. È stato visto attraverso uno studio americano del 2008, condotto in Florida su 251 ospedali e scaturito dalla fusione di un’indagine di assistenza infermieristica statale in questo Stato e l’AHA (Associazione degli ospedali americani), che le strutture ospedaliere in cattive acque a livello finanziario sbagliano a ridurre il personale infermieristico per risparmiare e far quadrare i conti. Questo espediente non migliora le prestazioni economiche e la redditività soprattutto nei mercati più competitivi. È indiscutibile, quindi, il valore aggiunto della presenza infermieristica in termini di qualità del servizio. La sua presenza migliora gli esiti dell’assistenza. I richiami a diversi autori in questa ricerca apportano un contributo essenziale per far comprendere la realtà che a volte sfugge ai manager ospedalieri.
È vero che la spesa del personale infermieristico grava molto sul bilancio aziendale, ma il contributo su efficienza ed efficacia delle prestazioni ospedaliere è essenziale. Proprio la corretta costituzione di un “tessuto” rappresentato dai diversi gradi di esperienza, di specializzazione, di capacità di relazione, di giudizio e di intuito dei lavoratori rappresenta una caratteristica peculiare su cui fondare il successo di un’assistenza globale aziendale, difficilmente replicabile strategicamente dalle aziende rivali. Quindi gli ospedali che hanno una dotazione organica con un elevato numero di infermieri sono avvantaggiati in un mercato più competitivo rispetto a ospedali con un numero inferiore.
Facciamo alcuni esempi. Se l’infermiere è solo, lavora di più, deve svolgere uguali compiti in minor tempo, oppure tralasciarne alcuni per farne bene altri. Per non dire che così facendo è esposto maggiormente alla possibilità di incappare in errori sempre in agguato con conseguenze disastrose per il paziente, per lui stesso e per l’azienda (si pensi alle richieste di risarcimenti). Perciò quello che è stato risparmiato in un anno ti viene tolto da una sentenza in un giorno. Se l’infermiere è solo esaurisce prima le proprie forze fisiche e mentali, si sente insoddisfatto del proprio operato, si sente inadeguato, alla fine lavorerà quel possibile ma contro voglia, quasi psicologicamente a voler “punire” la sua azienda, che lo ha portato a quelle condizioni e alla fine è lui a decidere cosa dare di sé all’ente. Se l’infermiere è solo, il tasso di mortalità e di fallimento a trenta giorni dei pazienti con problematiche chirurgiche aumenta del 7% per ogni singolo aumento del carico di lavoro (Aiken et al. 2002). Se l’infermiere è solo, si riscontra un tasso di mortalità elevato per i pazienti (Needleman et al. 2011). Se l’infermiere è solo, aumentano gli eventi avversi ospedalieri, le ulcere da pressione, le infezioni delle vie urinarie e le cadute (Unruh 2003).
Tutti acclamano e giustificano, dati alla mano, una buona dotazione infermieristica. Quindi cosa si aspetta a riempire le corsie dei nostri ospedali con un valore così prezioso, visti i risultati positivi? Perché non si rafforzano le piante organiche? Perché chiudere reparti?! Basta tagli indiscriminati, basta sprechi in altre attività, basta costruire cattedrali nel deserto. Poi continuo a leggere e, alla pagina successiva, scopro che a breve sarà allestito il perimetro per la costruzione del nuovo lotto dell’ospedale di Casarano al posto dell’ampio parcheggio. Chiudo il giornale.
Inf. legale forense Giovanni Trianni
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