«Non siamo in guerra, e non mi sento per nulla rappresentato dalla retorica di chi ci descrive come un esercito — rifletteva un medico col Corriere in colloquio della scorsa primavera, nel pieno della pandemia —.
Una cosa invece è certamente vera, quando tutto questo finirà, chiunque lavori oggi in un ospedale avrà delle pesanti cicatrici dentro, queste sì paragonabili a quelle lasciate da una guerra, o da una catastrofe». Ecco, a poco più di sei mesi di distanza, e proprio mentre gli ospedali stanno affrontando la seconda ondata, per la prima volta uno studio valuta le conseguenze sulla salute mentale del personale sanitario della Lombardia.
E il risultato è drammatico: il 40 per cento degli oltre 650 medici, infermieri, assistenti e tecnici di laboratorio coinvolti nell’indagine rientrano nei criteri per una «diagnosi provvisoria» di «Disturbo da stress post-traumatico».
Come i reduci di una guerra. Come i sopravvissuti a una catastrofe naturale.
Oltre la malattia
Lo studio è stato elaborato da specialisti dell’ospedale «Sacco», del «Policlinico» e della «Statale» (con l’approvazione del comitato etico dell’università).
Lo studio è apparso sulla rivista scientifica “Journal of Affective Disorders” e si intitola “The relationship between post-traumatic stress and positive mental health symptoms among health workers during COVID-19 pandemicin Lombardy, Italy” (autori: M. Bassi, L. Negri, A. Delle Fave, R. Accardi).
Oltre a una prima analisi nazionale fatta lo scorso giugno, si tratta della prima e finora unica ricerca scientifica sulla «salute mentale del personale sanitario in Lombardia». Ha coinvolto 189 medici, 318 infermieri, 114 tecnici e fisioterapisti, 32 assistenti sociosanitari, con l’obiettivo di avere un quadro più ampio possibile di tutte le professioni che hanno dovuto fronteggiare l’epidemia negli ospedali.
I test sono stati fatti nel periodo finale del lockdown, tra il 15 aprile e il 3 maggio, dunque nella fase in cui lo tsunami del coronavirus si era già abbattuto sulla Lombardia e si iniziava a sperare che finisse. Il profilo sociale e demografico del «campione» sotto esame è importante perché ha permesso poi ai ricercatori di valutare i fattori di rischio e di fragilità.
Ai test hanno partecipato 482 donne e 171 uomini; 184 single e gli altri sposati, conviventi o divorziati; 249 con meno di 10 anni di lavoro e 128 con più di trent’anni di professione; 261 lavoratori di prima linea nei reparti Covid, 258 di seconda linea, 114 di terza linea (ad esempio i tecnici di laboratorio).
Le conclusioni dicono che le donne hanno avuto una probabilità maggiore rispetto agli uomini di entrare in condizione di «disturbo da stress post-traumatico»; che la categoria più in crisi sono state le infermiere e le assistenti socio-sanitarie; che il personale di «prima linea» ha avuto un rischio doppio rispetto al resto, mentre l’anzianità non ha svolto un ruolo determinante. Ecco chi si porterà dietro le ferite interiori più profonde, che allargano lo scenario rispetto alla conseguenze dirette della malattia già sopportate dal personale sanitario, con oltre 200 medici morti e più di 20 mila ammalati di coronavirus in tutta Italia.
Condizioni estreme
Il «Disturbo da stress post-traumatico» è una forma di disagio mentale che venne studiata e codificata per la prima volta dalla psichiatria negli Stati Uniti analizzando i disturbi nei reduci della guerra del Vietnam. La caratteristica principale è che la vittima rivive l’esperienza traumatica. Altri sintomi: difficoltà nel controllo delle emozioni, irritabilità, depressione, ansia, insonnia. Conseguenze che sono in qualche modo prevedibili nella situazione in cui hanno lavorato medici e infermieri in Lombardia tra marzo e aprile, descritta così dagli autori nell’introduzione dello studio:
«Il personale sanitario ha sperimentato condizioni di lavoro estreme, con sovraccarico di lavoro, esposizione al rischio di contagio, cambiamento nelle mansioni, pazienti in condizioni critiche, mancanza di supporto.
A livello privato, non hanno avuto tempo di riposo o svago, e molti hanno rinunciato alla vita familiare per paura di diffondere il contagio».
Per avere un quadro più corposo e approfondito possibile, alla verifica dei sintomi del disagio i ricercatori hanno incrociato una valutazione sul benessere mentale delle persone coinvolte, accertando un legame anche tra una cattiva condizione di salute mentale e il rischio di disturbi psichiatrici. Le condizioni di lavoro in Lombardia sono state talmente critiche che, a differenza di altri studi analoghi fatti all’estero, «l’anzianità non è emersa come un fattore di rischio maggiore, mettendo in luce che il personale sanitario non era preparato ad affrontare la sfida dell’epidemia, indipendentemente dall’esperienza di lavoro precedente».
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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