“Essere o non essere? Questo è il problema”. Oggi potremmo tradurre quel dubbio amletico in una domanda più attuale: tecno sì o tecno no? Nel mondo della sanità italiana questa domanda non è affatto retorica. È invece lo specchio di un conflitto generazionale, culturale e talvolta anche valoriale.
Da una parte i giovani professionisti – infermieri, medici, tecnici – abituati a smartphone, cartelle elettroniche, software clinici, intelligenze artificiali. Dall’altra i cosiddetti anziani di ruolo, spesso con una lunghissima esperienza professionale, ma più restii all’adozione delle tecnologie digitali. Non per ignoranza, ma per abitudine, cultura e – a volte – comprensibile diffidenza.
Una sanità sempre più digitale
Oggi parlare di tecnologia in sanità non è un’opzione, ma una realtà. Dai sistemi di gestione informatizzata delle terapie ai monitoraggi in tempo reale tramite dispositivi wearable, la digitalizzazione è ovunque. Il ministero della Salute ha fatto una scelta chiara, promuovendo la garanzia delle competenze, un programma che rientra nel più ampio Piano nazionale e nell’Agenda 2030 per l’apprendimento permanente. Tra le competenze fondamentali, quella digitale ha ormai assunto un ruolo cardine, anche e soprattutto per gli operatori sanitari.
L’obiettivo è rendere il sistema più efficiente, interconnesso e accessibile. Come ha dichiarato l’Oms già nel 2019, sfruttare la potenza delle tecnologie digitali è essenziale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile, tra cui la copertura sanitaria universale.
La tecnologia è un alleato, non un nemico
Chi ha lavorato in reparto sa bene quanto tempo venga sottratto all’assistenza per la gestione burocratica. La digitalizzazione, se usata con criterio, può alleggerire questi carichi, snellire i processi e restituire agli infermieri tempo, attenzione e presenza per il paziente. Le cartelle cliniche elettroniche, ad esempio, non sono solo strumenti di archivio: sono ecosistemi informativi che, se ben gestiti, permettono una presa in carico del paziente più sicura, tracciata, multidisciplinare.
Eppure non possiamo ignorare l’altra faccia della medaglia: il rischio di una sanità spersonalizzata, dove il paziente diventa un codice e l’operatore un mero esecutore di click. L’equilibrio è delicato e la formazione diventa fondamentale. Perché l’innovazione, se non è accompagnata dalla comprensione profonda del suo impatto umano, rischia di fallire.
Infermieri tra due mondi
Il vero nodo non è tecnologia sì o no, ma come, quando e per chi usarla. Oggi l’infermiere deve sapersi muovere su due piani: quello relazionale e quello digitale. Non possiamo più permetterci di considerare la tecnologia come un elemento opzionale. Fa parte delle competenze core. Ma non possiamo nemmeno permetterci di abbandonare l’empatia, la comunicazione non verbale, lo sguardo clinico.
Chi scrive è un infermiere che ha visto colleghi eccellere nel rapporto umano, ma trovarsi spaesati davanti a un nuovo gestionale. E ne ha visti altri eccellere nei dati, ma perdersi nel dialogo con un paziente anziano. La verità è che non c’è più spazio per un solo tipo di competenza: dobbiamo essere completi.
Un ponte tra generazioni
La sfida, in conclusione, è culturale, prima che tecnica. Servono più momenti di formazione condivisa, mentoring inverso (dove i giovani insegnano ai più esperti l’uso degli strumenti digitali), ma anche l’umiltà di ascoltare chi ha vissuto decenni di corsie senza bisogno di Wi-Fi. Il futuro è digitale, ma non è disumano. Dipende da noi, da come sapremo costruire una sanità che non perda mai il contatto con la persona, pur connessa a ogni rete possibile.
Guido Gabriele Antonio
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