Per il presidente dell’Unione regionale istituti per anziani della Regione Veneta il super oss non rappresenta la soluzione alla carenza di personale. Meglio “puntare sui professionisti stranieri”.
“Non siamo il supermercato della sanità”. Questa l’immagine scelta da Roberto Volpe (foto), presidente di Uripa (Unione regionale istituti per anziani della Regione Veneta) per raccontare il “saccheggio” che il mondo delle case di riposo venete rischia di subire. Il problema di fondo è sempre lo stesso: la grave carenza di personale.
Un problema che la Regione sperava di limitare con la creazione di quella figura ibrida chiamata operatore socio-sanitario con formazione complementare o super oss. Per formarla è partito nel maggio scorso un corso che si concluderà a settembre, al termine delle 500 ore previste tra teoria e tirocinio, seguite dall’esame. “Dovevano parteciparvi in 510, ma se ne sono presentati molti meno – spiega Volpe al Mattino di Padova -. Il tentativo non ha funzionato”.
E perché non ha funzionato? In primis perché un percorso di formazione tanto impegnativo è difficile da conciliare con un lavoro a tempo pieno. Per riuscirci, gli oss in servizio nelle Rsa, unici possibili fruitori del corso, hanno dovuto chiedere periodi di aspettativa o di essere impiegati part-time.
“Tante case di riposo hanno aiutato i dipendenti, proponendo contratti vantaggiosi o pagando loro il corso di formazione, ma è chiaro che tutti hanno comunque subito un adeguamento al ribasso degli stipendi e tanti posti sono rimasti scoperti” aggiunge Volpe, che fin dall’inizio ha chiesto che al corso fossero ammessi anche i dipendenti degli ospedali, e non delle sole Rsa, per ampliare la platea degli iscritti.
La sua proposta, però, non è stata presa in considerazione. Anzi, a livello nazionale è allo studio un riforma del percorso, che vorrebbe consentire ai super oss di lavorare non più unicamente nelle residenze per anziani, ma in tutte le strutture sanitarie, compresi ospedali, ambulatori e cliniche private. “È il colmo – sbotta Volpe -. Significa che i lavoratori da formare possono essere forniti soltanto da noi. Ma poi, a qualifica ottenuta, potranno essere assunti anche negli ospedali. È una fregatura, non ci sono altre parole per definirla. Siamo trattati sistematicamente come il supermercato della sanità, dove venire a fare la spesa”.
Intanto, la carenza di infermieri è stata parzialmente colmata con l’arrivo di professionisti stranieri. Molti arrivano dal Sud America, altri da Repubblica Dominicana, Albania e Nord Africa; “Si tratta di 400-500 lavoratori, che per noi sono stati una vera boccata d’ossigeno. Questi lavoratori ci servono come il pane. L’accordo trovato per gli infermieri andrebbe copiato per gli oss”.
In Veneto si stima che manchino circa 3mila operatori socio-sanitari. “Per questo serve un percorso di immigrazione guidata, che passi attraverso la sottoscrizione di accordi internazionali – propone Volpe -. Perché qui, ogni volta che si parla di immigrazione, si grida allo scandalo. Dobbiamo chiederci come vogliamo porci di fronte all’immigrazione: se subirla o governarla”.
E ancora: “Se fossi nella Regione Veneto, organizzerei corsi di formazione direttamente nei Paesi dalla forte disponibilità migratoria: corsi per oss nella Repubblica Dominicana o in Brasile, per garantire alle nostre strutture sanitarie un adeguato numero di personale formato. La Germania ha fatto proprio questo con i lavoratori siriani e pakistani. Parlare di immigrazione porta sempre a innescare battaglie ideologiche. Io però starei attento, perché questo potrebbe significare la prospettiva di una sanità svuotata”.
Redazione Nurse Times
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