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SPECIALE NURSETIMES: Alessio Biondino si racconta

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Alessio BIONDINO intervistato da NURSETIMES racconta la sua esperienza professionale che lo ha ispirato nella composizione del romanzo “BUONANOTTE, MADAME” 

Chi è Alessio Biondino? Un infermiere o uno scrittore?

Alessio Biondino ha parecchie caratteristiche… descriverlo in poche righe non è per niente semplice. Di sicuro è una persona che sta bene quando riesce ad aiutare e a far sorridere qualcuno, soprattutto chi si trova nel momento del bisogno, compromesso dal precario stato di salute. E’ laureato in infermieristica col massimo dei voti, passa molte ore al mese ad assistere pazienti in fase acuta in un reparto di medicina, ha assistito sul territorio pazienti affetti da patologie respiratorie complesse, ha un passato da assistente di ragazzi disabili e si occupa di formazione sanitaria. E’ quindi un infermiere, che ama però anche scrivere e descrivere…e che ad un certo punto del suo percorso professionale ha avuto una storia da raccontare: “Buonanotte, madame”.

Da dove e perché nasce ”Buonanotte, madame”?

“Buonanotte, madame” nasce da una relazione d’aiuto molto particolare che ho avuto la fortuna di vivere insieme ad una signora malata di Sla, assistita a domicilio per ben 2654 ore in un anno e mezzo. La prima parte della mia vita professionale da infermiere è stata, infatti, caratterizzata da questa attività:

assistere a domicilio diverse persone investite da questo inarrestabile uragano patologico chiamato Sclerosi laterale amiotrofica. Tutte praticamente immobili, comunicanti solo cogli occhi o tramite una flebile e spesso incomprensibile scrittura manuale. Tutte tracheostomizzate e collegate ad un respiratore meccanico per poter sopravvivere. Rosa, la protagonista, è stata una di queste persone.

Perché è nato il libro? Beh… forse perché, come vi ho già detto tempo fa in un’altra intervista,  “alcune storie, alcune emozioni, alcune risate e la forza intrinseca di alcuni rapporti umani sono veramente impossibili da dimenticare e… da non raccontare”. Con lei (Rosa), nelle moltissime ore passate insieme, ho vissuto momenti tristi, felici, difficili, vividi, memorabili, a volte esilaranti che mi hanno fatto rendere conto di quanta forza e di quanta umanità siano in grado di trasmettere le persone affette da queste terribili patologie cronico-degenerative. Non sono sempre e solo esseri disperati e tristi che attendono inerti una morte inevitabile; anzi il più delle volte sono persone forti, caparbie, costantemente alla ricerca di emozioni e di buonumore, che reclamano solo un aiuto dignitoso per riorganizzarsi e riprendere in mano la propria vita. Rosa mi è entrata nel cuore. Ciò che abbiamo vissuto insieme è stato unico. E la sua forza mi ha aiutato a vedere il mio ruolo da altri e importanti punti di vista. Grazie a lei sono un infermiere sicuramente migliore.

 Cosa vuol dire assistere un malato di Sla a domicilio?

Significa dedicarsi ad una persona definita “ad alta intensità assistenziale”, con tutto ciò che ne consegue, per diverse ore al giorno (i miei erano turni da 12 ore). “Sapere e saper fare” sono fondamentali, poiché ci si ritrova a casa da soli con un paziente che può presentare un evento critico da un momento all’altro. Bisogna poi conoscere a fondo e saper gestire i presidi tecnologici che lo mantengono in vita, prevenire le infezioni respiratorie e i vari problemi dovuti all’immobilità, trovare il modo per comunicare in modo accettabile (tramite tavole alfabetiche in plexiglas o pc, ad esempio). E’ importante saper gestire a livello emotivo le varie fasi imposte dall’evoluzione della patologia e le emozioni che essa impone al paziente e alla sua famiglia; senza rischiare di alterare determinati equilibri, che spesso sono molto fragili. Bisogna trovare il modo di costruire una solida relazione d’aiuto con l’utente e con i suoi cari, in modo da ottenere la massima fiducia e da poter così esprimere al meglio la propria professionalità senza che ciò vada a creare dei problemi.

Assistere un paziente malato di Sla a domicilio è quindi molto complesso… anche perché, è importante ricordarlo, non si lavora in un ambiente protetto come può essere la corsia di un ospedale, ma si è “ospiti forzati” all’interno di una casa e di un contesto familiare che a volte potrebbe non essere così accogliente e collaborante.

Pensi che l’Ice Bucket Challenge sia stata una “moda” utile?

Purtroppo molte persone hanno utilizzato l’Ice Bucket solamente per mettersi in mostra, spesso senza neanche conoscerne il reale motivo e senza andarsi a informare dopo averlo fatto (il che è peggio) sul significato della parola “Sla”. Molte altre però l’hanno usato per parlare della patologia, delle condizioni dei malati assistiti a domicilio, dell’aggiornamento di questo benedetto nomenclatore tariffario oramai arcaico e hanno cavalcato l’onda di questa fresca “moda” estiva per sensibilizzare e per informare sulla Sla e sulle condizioni dei malati. Sono stati raccolti tantissimi soldi per la ricerca (l’AISLA parla di circa 2.400.000 di euro), decisamente inusuali per il nostro paese; e questo è stato a dir poco positivo. Che la politica debba metterci del suo e magari far sì che le speranze e la vita delle persone non autosufficienti non siano solo legate al buon senso e al buon cuore di chi fa beneficienza… è un altro discorso. Lungo.

Il nomenclatore tariffario va aggiornato. E il fondo per la non autosufficienza, vergognosamente ridotto di 100 milioni con la nuova legge di stabilità e poi portato a 400 milioni dopo la protesta dei malati di Sla davanti al MEF il 4 novembre (a cui ero presente) va assolutamente ampliato. Non si può e non si deve continuare a risparmiare su sociale, sanità e scuola. Penso che ciò che resta di questo paese andrà inevitabilmente in frantumi, se si continua su questa strada.

Il tuo romanzo ha il merito di accendere i riflettori sulla situazione infermieristica in alcuni ambiti professionali. Quali sono le condizioni lavorative degli infermieri impegnati in assistenza domiciliare a pazienti complessi?

L’assistenza domiciliare a pazienti complessi, qui nel Lazio, è ormai in mano ad associazioni, a cooperative e a tante altre aziende appaltate che hanno come unico obiettivo quello di fare soldi evitando che il paziente e la sua famiglia si lamentino del servizio erogato con le Aziende Sanitarie Locali.

I colleghi che lavorano in assistenza domiciliare a pazienti complessi sono quasi tutti precari o “liberi” professionisti “costretti” ad aprire la partita iva per poter lavorare (e quindi doppiamente precari, secondo me: cosa c’è di “libero” in tutto questo?). Su turni, poi, cosa non propriamente compatibile col regime libero professionale. Spesso sono sottopagati e non pagati per mesi. Basta il decesso di un utente (sono pazienti gravi, capita), un suo periodo di vacanza prolungato lontano dal domicilio, il rifiuto da parte sua o della sua famiglia di accogliere nuovamente nella propria casa un professionista (per qualsiasi motivo a loro discrezione) per far sì che il sanitario stia lunghi periodi di tempo senza lavorare. O che addirittura debba cercarsi un altro posto di lavoro.

In alcuni casi l’infermiere vive il lavoro a domicilio come un frustrante incubo, poiché trattato dalle famiglie come una sorta di ausiliario, di badante o di domestico (con tutto il rispetto per queste tre figure), a cui richiedere costantemente mansioni che di solito caratterizzano queste categorie. Senza alcuna tutela, protesta o azione da parte dell’azienda di appartenenza il cui obiettivo è probabilmente quello di non avere problemi con chi tira fuori i soldi (…). Mi si potrebbe dire: “ok, ma noi siamo professionisti e sta soprattutto a noi farci rispettare”. Beh… non è così semplice. Si è precari. C’è crisi e disoccupazione. Per ogni lavoratore che prova a farsi rispettare ce ne sono centinaia a spasso e in agguato pronti a prendere il suo posto; e le aziende non aspettano altro, visto che possono fare ciò che vogliono. Quindi, in un paese oramai in rovina, diventa saggio fare un respiro profondo, mandare giù l’amaro boccone ed eseguire ciò che è stato richiesto, per quanto demansionante o assurdo sia. Senza lamentarsi, per non rischiare di perdere il precario ma vitale posto di lavoro.

C’è poi il discorso della responsabilità professionale, secondo me da non sottovalutare. Nessun sanitario impiegato a domicilio riceve una formazione specifica sulla gestione di pazienti complessi, a parte qualche giorno di affiancamento iniziale presso gli utenti con gli infermieri o anche con OSS (…!!!) che li conoscono. Non ci sono o non vengono proposti e rispettati piani assistenziali, protocolli e linee guida. L’addestramento a gestire situazioni di emergenza, poi, è poi un vero e proprio miraggio. Tutto ciò mette inevitabilmente a rischio il professionista sanitario e soprattutto… il paziente.

Per far fronte a tutto questo e per migliorare la gestione quotidiana degli utenti, nel gennaio 2013 (lavoravo ancora con i pazienti affetti da Sla) ho pubblicato un manuale scientifico dal titolo “Assistenza respiratoria domiciliare: il paziente adulto tracheostomizzato in ventilazione meccanica a lungo termine” (Ed. Universitalia), che raccoglie molte informazioni su come approcciarsi correttamente all’assistenza di questi pazienti così complessi e di cui ho donato diverse copie ad utenti e ad associazioni che si occupano di Sla.

Qual’è la situazione dell’infermieristica italiana? Un breve cenno sulle problematiche su cui dovrebbero concentrarsi i nostri rappresentanti istituzionali

La situazione dell’infermieristica? Triste. Veramente triste. Precarietà, disoccupazione, assenza di controlli, rischi professionali, demansionamento, zero meritocrazia e paghe da fame sono oramai una parte integrante dell’essere infermiere. L’infermiere è forse una delle poche professioni sanitarie che più sta pagando il prezzo di questa crisi. Se non uniamo le nostre forze e non ci facciamo sentire, sarà sempre più difficile.  Esistono cooperative di infermieri che pagano circa 8 euro lorde l’ora (parlo sempre di precarietà e di falsa libera professione, logicamente; di contratti neanche l’ombra!). Di infermieri de mansionati e rassegnati. Conosco colleghi infermieri assunti (a termine) come OSS o peggio. Di colleghi pagati come “volontari” che prendono 1200 euro senza contributi (quindi in totale!) per circa 190 ore di lavoro al mese. Alcuni denunciano, ma per paura di perdere il posto (sono precari) quasi tutti non lo fanno.

L’ultima che mi è capitata: mi sono state offerte 13,25 euro l’ora lorde per fare l’OSS (con fattura) in una cooperativa sociale, all’interno di una casa famiglia con due soli ragazzi disabili e un carico di lavoro e di responsabilità veramente basso. Beh, la cosa ancora più strana è che una delle cooperative di infermieri più famose di Roma, mi ha offerto 10 euro lorde per fare invece l’infermiere in reparti complessi come terapia intensiva e pronto soccorso… con un carico di lavoro, di pressione e di responsabilità molto elevato. Che logica c’è in tutto questo?

In conclusione le problematiche sono tante, e credo sia giunto il momento di affrontarle tutti insieme. Servono controlli,  sblocco del turn over, sblocco dei concorsi  pubblici (ormai scomparsi), assunzioni seguendo criteri di trasparenza e meritocrazia. Servirebbero interventi decisi da parte del Collegio IPASVI.

Il futuro di Alessio Biondino: ci delizierai con altri romanzi?

Chissà… In primis io sono un infermiere, alla ricerca della propria realizzazione professionale e di quel grande entusiasmo che avevo all’inizio, appena laureato; entusiasmo che ora è pesantemente intaccato da un periodo così negativo per la nostra professione.

Una delle mie passioni è scrivere, descrivere e raccontare… quindi, se mai avrò un’altra storia che mi esploderà dentro come “Buonanotte madame”,  proverò di nuovo a trasmettervi tutto il mio amore per questa professione; che resta nonostante tutto una delle professioni sanitarie più amate, anche se poco riconosciuta.

Grazie di cuore a NurseTimes per l’attenzione rivolta alla mia persona e al mio libro. Un abbraccio a tutti i colleghi infermieri che seguono questo spazio.

Alessio Biondino

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