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Speciale NurseTimes (2a Parte): Il Piave mormorava – Le infermiere italiane nella Prima Guerra Mondiale

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Speciale NurseTimes (2a Parte): Il Piave mormorava – Le infermiere italiane nella Prima Guerra Mondiale
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Dopo la toccante testimonianza della prof. Siccardi che ha ricostruito con grande precisione e dettagli la situazione della popolazione savonese durante il periodo della grande guerra, la sessione riprende con la lettura di A. Vumbaca del “L’orgoglio italiano – Manifesto futurista”, manifesto di propaganda di guerra redatto dai Futuristi (Marinetti-Boccioni -Russolo-Sant’Elia-Sironi-Piatti) che vi proponiamo di seguito: “…Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l’italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere italiano e convinto che l’Italia è destinata a dominare il mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l’italiano che manifesta in sé la piu piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e straccione che ha caratterizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi come nemici della patria, e vanamente frustati con abbondanti e continue docce di sputi. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che si nasconde sotto il suo ingegno come fa lo struzzo sotto le sue penne di lusso e non sa identificare il proprio orgoglio coll’orgoglio militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà, dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e fisico…”

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Il contributo della prof. A. La Torre ripercorre le cause che portarono gli stati europei a dichiararsi guerra, inquadrando le vere motivazioni, un percorso storico analizzato scrupolosamente che ha proiettato il pubblico nei primi del novecento: forti spinte nazionaliste, spinte culturali (futurismo), esigenze economiche, spinte dei gruppi industriali, forti risentimenti tra le Nazioni. Insomma si sviluppo un clima molto favorevole alla guerra che trovò nell’attentato da parte di un cittadino serbo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono di Austria e Ungheria il 28 giugno 1914 a Sarajevo la causa scatenante. Questo avvenimento fece esplodere le tensioni internazionali, e l’Austria dichiarò guerra.

Il primo maresciallo F. Castellano con la sua relazione “Fratibus ut vitam servares “: la sanità militare durante la grande guerra, descrivendo l’organizzazione sanitaria durante la grande guerra.

La sanità militare eracomposta dai soldati del Corpo della Sanità Militare e dall’apparato della Croce Rossa Italiana (personale medico e “Dame della Croce Rossa”, cioè crocerossine volontarie) coadiuvato dal personale infermieristico sempre volontario facente parte di vari comitati assistenziali quali i Cavalieri di Malta, quelli dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro, i Gesuiti. Importante fu anche l’ aiuto dato dagli Alleati: nel 1918 operavano nel fronte italiano centinaia di militari di Sanità britannici e statunitensi, con compiti di ambulazieri ma anche barrellieri e infermieri. Con l’ entrata in guerra la Croce Rossa Italiana militarizzò immediatamente il suo personale, forte di 9.500 infermieri e 1.200 dottori, con 209 apparati logistici propri tra Ospedali Territoriali, attendamenti, autoambulanze e treni ospedali); già nel 1916 i medici militari in Zona di Guerra erano 8.000 (più altri 6.000 che operavano in retrovia) e nel 1918 diventarono complessivamente 18.000. Furono creati anche Reparti di Sanità Someggiati, dotati di muli o cavalli per lo sgombero dei feriti dalle prime linee. La dotazione di materiale medico avveniva a livello di battaglione per la fanteria e di compagnia per alpini, mitraglieri e bersaglieri ciclisti; di norma una di queste unità aveva in dotazione quattro barelle e vari “cofani” e borse di sanità contenenti garze, bende, lacci emostatici, filo per sutura, siringhe, disinfettanti (iodio, alcool e acqua, etere, cloroformio come anestetizzante) antiparassitari, (antitifina e naftalina) e fiale di morfina. Ricordiamo che allora non esistevano antibiotici e che la trasfusione di sangue non veniva ancora utilizzata. Subito dietro alle prime linee si trovavano i Posti di Medicazione, infermerie campali sistemate in punti defilati o il più possibile al riparo dal fuoco nemico, dove venivano sommariamente fasciati e medicati i feriti che non erano riusciti da soli ad arrestare emorraggie, fasciarsi arti rotti o maciullati o rischiavano il dissanguamento; in seguito i feriti raggiungevano a piedi se in grado o in groppa a muli, a spalla o in autoambulanze gli Ospedaletti da Campo. Qui il personale medico chirurgico della Sezione di Sanità operava i feriti più gravi, medicava sommariamente o disinfettava e mandava verso le retrovie i meno urgenti (rispedendo in linea quelli considerati abili, scortati da carabinieri), somministrava adrenalina ai dissanguati e morfina come sedativo ai più soffenti oppure lasciava agonizzare quelli per cui ogni intervento sarebbe stato inutile. A questi molto spesso venivano tolte le bende, per applicarle, in caso di penuria di garze, a qualche altro ferito “salvabile”, prima che fossero morti, e magari ancora in stato di semicoscienza.

In seguito tramite le Sezioni di Sanità i feriti precedentemente medicati venivano sgomberati verso altri Ospedali da Campo (strutture sistemate su baracche o tendopoli poste che accoglievano i feriti aggravatisi o quelli che avevano meno di 30 gg di convalescenza) o più indietro sui vari Ospedali Divisionali, d’Armata o Territoriali della C.R.I. Tutto il territorio della retrovia fu riempito da questi grandi Ospedali, alloggiati in prossimità di grandi strade o ferrovie dentro a scuole (è il caso dell’ Ospedale n. 031 di Mariano del Friuli), ad ospedali civili (come il S. Osvaldo di Udine o l’Ospizio dell’ Addolorata a S. Stefano Rotondo) o a grandi ville padronali (i Savoia dal canto loro misero a disposizione il Palazzo Reale di Moncalieri, dove sorse l’ ospedale militare per mutilati, e una stanza del palazzo al Celio in Roma riservata solo a feriti “eccellenti”). Queste grandi strutture (nel ’17 in Z.d.G. c’erano 234 ospedali da 50 posti letto, 167 da 100-150, 46 da 200 e 27 ospedali di tappa) potevano anche godere del supporto di strutture specializzate quali sezioni di disinfestazione, laboratori chimico batteriologici, campi contumaciali, stazioni radiologiche.

Allo scopo di decongestionare il più possibile le strutture ospedaliere in Zona di Guerra i feriti vennero in seguito anche ricoverati in Navi Ospedale (come la Albaro, la Menphi, la Po, la Principessa Giovanna) o nei 59 Treni Ospedale (convogli da 360 posti che raggiungevano le stazioni avanzate del fronte per caricare i pazienti per poi ripartire verso l’ interno fermarsi nei rami morti delle grandi stazioni, come Mestre, Torino, Padova, Verona). In Friuli fu riutilizzata la via fluviale della “Litoranea Veneta” (un grosso canale navigabile che collegava Grado a Mestre passando parallelo alla costa e distante da essa circa circa 5 km), dove migliaia di feriti del Carso furono sgomberati su chiatte rimorchiate da battelli che partivano da Grado e dopo una notte di viaggio raggiungevano Mestre.

Interessante la relazione esposta dal dott.Giancarlo Celeri Bellotti, presidente della Società Italiana di Storia dell’assistenza Infermieristica (So.I.S.A.I.) dal titolo “Che pericolo i tram condotti dalle donne!”: il processo di mascolizzazione delle donna durante la Prima Guerra Mondiale. Presentazione dei passaggi che hanno portato gradualmente ad una prima trasformazione di genere, sia della visione sia del ruolo sociale della donna, durante la Prima Guerra Mondiale, le potenzialità, espresse e confermate, da parte del genere femminile, di poter svolgere, con la stessa capacità, molte attività che, per concetto, tradizione e stereotipi, erano di pertinenza, quasi elitaria, maschile.

Il ruolo sociale della donna per millenni è stato, purtroppo, per forzata ed utilitaristica costruzione culturale, di obbedienza e sottomissione all’autorità maschile, sia essa stata paterna, maritale o parentale. Dalla donna ci si aspetta fedeltà, corretta condotta morale e di comportamenti, rigida morigeratezza di costumi, soprattutto sessuali.

Ci sia aspetta che metta al mondo figli, si prenda cura di loro, della casa, della famiglia, dei suoi componenti e che lavori per il sostegno economico familiare, a meno che non sia di condizione sociale elevata o inserita in qualche ordine confessionale. Così, nei secoli, per stratificazione sociale, si viene a creare e radicare questo fortissimo paradigma, fatto di stereotipi e convenzioni, dettate e volute dal maschiocentrismo.

Ma dall’ultimo scorcio del XIX secolo, prende avvio un processo di cambiamento della visione e del ruolo sociale della donna. Vengono cioè sostenute e favorite, non senza fatica, sofferenza e dolore, idee di mutamento relative agli stereotipi di genere, appunto ormai radicati da moltissimi secoli, che influivano negativamente su di essa, in tutti gli ambiti del quotidiano e che, fino a quel momento, assegnavano incontrovertibilmente esclusività totale di potere e di predominio al maschio.

Proprio con il passaggio al Novecento e con la nascita dei movimenti femministi (tradizionalmente pacifisti) questa svolta viene ancor di più resa evidente, attraverso l’avvio di cambiamenti di costumi, usi, comportamenti, sentimenti, moda, arrivando anche a variare il vissuto della sessualità.

Con la Prima Guerra Mondiale, si assiste, conseguentemente, ad una trasformazione di genere anche nel lavoro, in tutti i suoi campi (arti, mestieri, commercio e professioni), aprendo così la possibilità di realizzare l’emancipazione sociale ed economica femminile, ovvero una liberazione che tende a sradicare definitivamente le idee del passato.

Nelle fabbriche, sulle strade, negli uffici ed in alcune istituzioni, le donne sostituiscono egregiamente gli uomini, impegnati nella guerra (ne vennero mobilitati tra il 1915 ed il 1918 ben 5.615.000), anche se il fenomeno viene spesso osteggiato e ridicolizzato, nonostante la contingenza del momento.

Ne è esempio questa affermazione, tratta da “Il secolo Breve”, di Hobsbawm:

La donna spazzino va anche bene, perché ramazzare è un’incombenza femminile, ma la donna postino, la donna tramviere: la prima ti legge la posta, la seconda ti porta a morte sicura. E se fa il bigliettaio sparge lussuria tra i passeggeri!”

Ancora di più, proprio durante la Prima Guerra mondiale, la donna condividerà attivamente e simbioticamente con l’uomo un ambito prettamente di esclusività di quest’ultimo: la guerra.

Sia perché, come già detto, lo sostituisce nelle varie attività lavorative, sia perché entrerà in scena prepotentemente nel ruolo di Infermiera, ma anche attraverso mansioni più umili, come ad esempio le “portatrici carniche: “Circa duemila donne, tra i 12 ed i 60 anni, reclutate dall’esercito per portare in prima linea nelle loro gerle fino a 40 chili di rifornimenti (…), pagate una lira e mezza (…). Nelle gerle c’erano munizioni, bombe a mano, granate, medicine, biancheria piena di pidocchi. Avevano un bracciale rosso di riconoscimento, con il numero di reparto cui erano assegnate. (…)” (Cazullo, 2014)

Tra di esse ricordiamo Maria Plozner Mentil, morta il 16 febbraio 1916, all’età di 32 anni, insignita, nel 1997, dal Presidente della Repubblica O.L. Scalfaro della Medaglia d’Oro al Valor Civile postuma, l’unica donna alla quale è stata intitolata una caserma, precisamente la Caserma degli Alpini di Paluzza (Ud).

Si viene conseguentemente a comporre una nuova costruzione dell’identità femminile, con evidenti ricadute sociali, perciò mascolinizzando, cioè rendendo più simile e vicina al maschio, la donna, perché ha dimostrato di avere forza di carattere, coraggio e capacità lavorative, molto simili al maschio.

Si aprono quindi una serie di questioni legate a questo avvio di cambiamento di genere, come, ad esempio, la questione del lavoro e le sue ripercussioni e ricadute sulla gestione della famiglia, l’adeguamento dei salari, la necessità di istruzione e formazione professionale, il diritto di voto, solo per citarne alcuni. Un processo che, purtroppo, incomincerà il suo declino all’immediatissimo domani dalla conclusione delle ostilità e che confermerà la questione definitivamente chiusa, con l’ascesa del Fascismo.

Il dott. Michele Riva, specialista in medicina del lavoro espone la relazione “Se non si muore oggi si muore domani”, medicina e malattia in tempo di guerra e pace. La tubercolosi è stata la vera causa scatenante della prima guerra mondiale, insieme alla povertà e miseria diffusa tra la popolazione che spinse il serbo a compiere l’attentato contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico. L’influenza spagnola fu un’altra delle cause di morte di molti soldati e civili.

Una nuova sfida sanitaria è stata la guerra chimica condotta con gas velenosi su vasta scala iniziata nel 1915 con l’attacco tedesco a Ypres. L’impiego di gas irritanti del sistema respiratorio, ulceranti o urticanti, causava vesciche e ustioni sulla pelle, anche attraverso i vestiti, cecità temporanea e difficoltà respiratorie, mentre i gas letali causavano morte fulminea, “bruciando” l’apparato respiratorio e causarono molte perdite nelle truppe.

Chiude la seconda sessione di lavoro l’ispettrice Provinciale della C.r.i. Chiara CARAFFA con la relazione “Ama, lavora, conforta, salva” Le crocerossine nella grande guerra, richiamando l’importante ruolo rivestito dalle infermiere volontarie come supporto sanitario, psicologico durante la guerra. L’evoluzione dell’assistenza durante la guerra e il grande sacrificio degli operatori sanitari. “I primi treni ospedali erano formati da carrozza cucina, uno scompartimento mensa con tavoli e panche, la dispensa e una ghiacciaia. Vi sono quindi i vagoni per il ricovero, la camera per le medicazioni e vagoni per gli alloggi del personale con camere singole per i medici e per il cappellano militare, doppie per le crocerossine; infine i servizi…Le medicazioni, gli interventi chirurgici vengono eseguiti con il treno in movimento; gli spazi sono angusti e inesistenti l’igiene scarsissima; all’infermiere volontarie viene richiesta oltre all’assistenza sanitaria anche l’igiene della biancheria dei feriti…”

Leggi la 1a parte…

…continua con la 3a parte!

Massimo Randolfi

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