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Sotto il cielo di GAZA. Parte terza

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3. Il contatto con la morte. L’incontro con il piccolo Ahmed

E questo è il mio contatto con la “morte”, dopo che ho avuto il contatto con la “vita”: mi accorgo che non riesco a trattenere le lacrime , “ non posso” mi dico “ devo essere forte e spavalda, che immagine posso dare di me, solo di una “ fregnona”, altro che di una figura forte e  determinata, giunta fin qui per dare una mano”

Ma è troppo forte l’impatto, troppo forti le immagini crude e crudeli , che mi si presentano. E troppo forti sono i racconti che mi coinvolgono.

Ma non può essere altrimenti: duemilaquattrocento abitazioni civili distrutte, trenta moschee, una cinquantina di stabili pubblici e istituzioni rase al suolo, ventinove scuole, spesso con bambini dentro. Il 43 % delle vittime sono minori.

Ahmed, sette anni, piccolo “ cucciolo” d’uomo rannicchiato, giace inerme su un cumulo di coperte colorate. Lo sguardo vitreo, perso nel vuoto, quasi a cercare di afferrare un mondo, che non è più suo.

Lo scorgo così, circondato dai parenti,  dei quali uno, disperato, si rivolge alzando le braccia  verso di me,  lamentandosi  in modo incomprensibile. Ma il fido Sami, la nostra guida , si sbriga a tradurmi. Non c’è poi molto da capire: la mano dell’uomo, che è il padre del bambino, stringe una lastra di  radiografia, dove appare in controluce ciò che “l’essere umano” riesce a fare, al di là della ragione.

Brilla, la pallottola di M16, dentro i profili del cranio di Ahmed, che un fucile mitragliatore, dieci giorni  orsono, dopo il “cessate il fuoco”, continuando a cercare le sue vittime, ha pensato bene di approffittare  di un piccolo cucciolo che “giocava” sui cumuli di macerie.

“Parla coi morti”  mi dice il padre, mentre un brivido mi  percorre il corpo. Ed è stato “ abbandonato”, i medici dicono che non possono intervenire, per mancanza di strutture; è già tanto se respira, anche se è stabilizzato.

Accanto, una piccola palestinese  con le gambe maciullate, la cui madre mi implora di prendere in considerazione , per poterla rivedere camminare.

Vorrei dirle, ma non posso,  che è già tanto se sopravvive.

Ho una macchina  fotografica, con me, ma ho scoperto oggi, di essere una pessima fotografa: non riesco a riprendere i corpi maciullati  e i volti in lacrime.

Non ce la faccio. Non riesco,  perchè piango anch’io.

D’accordo con la coordinatrice della missione, e più che sospinti dal padre, abbiamo tentato poi con vari contatti telefonici e via internet, da un unico check-point, miracolosamente salvato, di comunicare  in Italia l’intento di poter  trasportare  Ahmed a Firenze.

Dopo vari passaggi, durati tre giorni, con  difficili contatti riusciti  con l’aiuto del Dottor Porzio dell”Ospedale di Santa Maria Nuova ( il mio luogo di lavoro),  che si è prodigato nella ricerca esasperata di vertici aziendali, e favorire il contatto con noi nella Striscia,  dopo innumerevoli (e costosi)  tentativi,  siamo riusciti ad incrociare i vari riferimenti necessari; dopodichè, attraverso  l’intercessione anche del dottor Stefanini  del Consolato di Gerusalemme, e l’Ambasciata del Cairo, con il Ministero degli Esteri Italiano, e i responsabili aziendali  di Firenze e del Meyer, abbiamo ottenuto finalmente il permesso  di trasporto in Italia; fermo restando, e questa era un’incognita, che gli israeliani avessero concesso il passaggio al confine..

Siamo “volati” ad Al Shifa,  entusiasti come non mai.

Purtroppo  Ahmed  aveva avuto una crisi estrema,  la sera prima, cancellando come con  un colpo di spugna  tutti i nostri buoni propositi, che si stavano per avverare.

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