Chiamati ad intervenire nell’ambito dell’emergenza Covid-19, come devono agire gli operatori sanitari la cui sicurezza non è garantita?
Purtroppo sale ogni giorno il numero dei decessi a causa di coronavirus nel mondo ospedaliero. La drammaticità della situazione mette alla luce numerosi problemi, primo fra tutti l’adeguatezza delle misure di sicurezza per chi lavora in ambiente sanitario.
A fronte di situazioni di mancata stretta e rigorosa osservanza di tutti i dispositivi di protezione richiesti dall’art. 18 del d.lgs n. 81/2008 o dalle specifiche linee guida a tutela della salute e sicurezza degli operatori sanitari nell’attuale emergenza da “Sars-Cov-2” del 28/03/2020, l’impulso ad invocare l’eccezione di inadempimento (di cui all’art. 1460 del cod. civile) e dunque il rifiuto giustificato a rendere la prestazione viene frenato dalla considerazione del possibile stato di necessità determinato dall’eccezionale emergenza epidemiologica e dalla sua virulenza in tutti i sensi.
Qualsiasi datore di lavoro ha l’obbligo generale di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro per il principio della massima sicurezza possibile concretamente realizzabile
art 2087 cod. civile
Cosa è lo “stato di necessità”?
La definizione più efficace la si ritrova nell’art. 54 del cod. penale ma la formulazione trova riscontri anche in alcune norme del diritto civile: “Si esclude la punibilità di chi abbia commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla, persona”.
Applicando il concetto nell’ambito in questione, potrebbe allora ritenersi che l’obbligo della struttura/datore di lavoro di garantire la massima sicurezza possibile dell’operatore sanitario comandato ad intervenire in ambienti covid-19 in mancanza di alcune misure di protezione o in altre condizioni di oggettivo pericolo tese a vanificarle (pensiamo al numero eccessivo di pazienti in uno stesso frangente temporale) possa retrocedere rispetto a condizioni di necessità emergenziale non previste e non fronteggiabili preventivamente. Ciò, con la conseguenza che l’operatore non potrebbe mai opporre un giustificato rifiuto.
Il punto di equilibrio tra il rifiuto giustificato e stato di necessità è tutt’altro che agevole da definire secondo criteri generali.
La considerazione che può però ragionevolmente fissarsi è la seguente: in una situazione di pandemia conclamata e radicatasi già da oltre un mese, a fronte di ripetute e verificate situazioni pregiudizievoli ed anche letali per i sanitari, è improponibile invocare lo stato di necessità per pretendere una sorta di esimente generale e “a prescindere” della struttura/datore di lavoro dall’obbligo di massima protezione dell’operatore e da tutte le connesse responsabilità per la sua salute. Manca la scusante della imprevedibilità del pericolo e della impreparazione a fronteggiare situazioni sì straordinarie ma purtroppo oggi non più improbabili (specie in presenza di linee di indirizzo adesso pure codificate sul rischio specifico covid-19).
Ecco allora perché se è meritorio se l’operatore decide di collaborare nonostante la condizione di ineguadezza della sicurezza, non è da biasimare e men che mai da sanzionare un giustificato rifiuto alla prestazione al persistere delle criticità delle dotazioni o dell’ambiente o delle modalità lavorative pericolose oltre l’immediatezza del primo intervento.
Fonte: Nicola Roberto Toscano & Partners – Avvocati Giuslavoristi
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