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Siamo infermieri e nessuno ci insegna ad affrontare il decesso. Ecco la mia esperienza

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Un decesso su tre in Europa è prematuro: potrebbe essere evitato applicando correttamente le conoscenze mediche
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Siamo infermieri e nessuno ci insegna come affrontare il decesso. Certo è scritto nelle teorie, nei libri, ma nella realtà è totalmente differente.

Citando il dizionario Treccani, la morte è la cessazione di tutte le funzioni vitali, di un uomo, un animale e di qualsiasi organismo vivente o elemento costitutivo di esso.

Chi è infermiere lo sa! La morte farà parte del nostro lavoro, sempre. Allora come approcciarsi? E’ possibile rimanere impassibili davanti a questo evento?

Ho iniziato a lavorare nel settore sanitario nel 2010. Ero soccorritore in ambulanza poi, una volta diventato autista del servizio territoriale di emergenza urgenza 118, è stato totalmente diverso. Era una continua corsa contro il tempo, in ogni turno cercavamo di anticipare la morte.

Certe volte eravamo primi ed altre, ahimè secondi. Una corsa che nessuno vorrebbe perdere. Inizi a maledire il traffico; maledici te stesso perché forse potevi correre di più! Ma la verità alla fine del turno era una sola, tu hai provato a correre, a fare del tuo meglio, ma lei, la morte era già lì.

Questo è quello che mi ha accompagnato per quasi 6 anni, da autista, prima e da infermiere dopo. Stando su strada si ha a che fare con molteplici dinamiche: incidenti stradali e domestici, accidenti neurologici, arresti cardiaci, omicidi/suicidi.

Perché per natura l’anziano finisce i suoi giorni e il giovane continua per i propri, ma quando la natura si capovolge è complicato. Ecco che diventa tragico quando devi comunicare ad una mamma che il proprio figlio, non è sopravvissuto all’incidente, anche se aveva il casco e non correva, ma per “colpa” di una tragica fatalità!

Chi lavora sul territorio, sa che deve far fronte a molteplici dinamiche e che un minuto può fare la differenza, tra la vita e la morte.

Ad Ottobre 2016 ho iniziato a lavorare in Ospedale, precisamente in Oncologia. In quell’anno ho imparato tanto dal punto di vista clinico, ma ancora di più dal punto di vista umano.

Lavorare in Oncologia è un’esperienza strana, perché ti rende felice e triste allo stesso tempo.

Felice perché sai di essere al fianco del paziente che inizierà un percorso duro e lui sa di poter contare su di te. Triste perché quando vedi che quel paziente non ce l’ha fatta, pur avendo dato tutto rimanendo al suo fianco, pur avendolo supportato, aiutato. Purtroppo un senso di impotenza e di rammarico resta.

Gabriel García Márquez scrisse:

“Ognuno è padrone della propria morte e l’unica cosa che possiamo fare, arrivato il momento è aiutarlo a morire senza paura né dolore”

In questi casi non possiamo fare altro che accompagnarlo alla fine dei suoi giorni, cercando di alleviare tutte le sue sofferenze.

Come accennato prima, l’infermiere si accosta alla morte in ogni circostanza, in ogni ambito clinico e sul territorio.

Questo carico emotivo, viene sempre superato?

Citando ancora una volta il dizionario Treccani, l’empatia è la capacità di porsi nella situazione dell’altra persona o più esattamente comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

L’infermiere è la prima persona che il paziente incontra una volta giunto in ospedale.

Avere empatia, fa si che il rapporto infermiere – paziente, si basi sulla fiducia reciproca. Il paziente oltre a capire di avere davanti un professionista, deve comprendere anche che noi riusciamo a capire la sua condizione di salute.

Una domanda però sorge spontanea: nel momento in cui quel paziente arriva alla fine dei suoi giorni e noi siamo stati lì al suo fianco, la nostra empatia può diventare un’arma a doppio taglio?

Per esperienza personale (almeno per me lo è stato) pur sapendo che si stava avviando a diventare un paziente terminale, non lo accetti e ti poni delle domande a cui ovviamente non ci sono risposte.

Quando si arriva in quel preciso momento, l’unica cosa che possiamo fare è accompagnarlo con dignità e rispetto, principi etici fondamentali della nostra professione.

Come ho scritto all’inizio, siamo infermieri, assistiamo il paziente, rincuoriamo la famiglia, ci mettiamo empatia per capire la situazione e cercare di fare del nostro meglio.

Ma certe volte, certi vestiti, vanno così stretti che possono soffocarti!

Io credo che ognuno di noi nel proprio vissuto professionale possa raccontare la propria esperienza. Se volete potete farlo mandandoci il vostro contributo al seguente indirizzo mail [email protected]

 

Antonio Caracallo

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