Spiegare ad un esterno il lavoro di un infermiere è particolarmente complesso, non per un’incapacità di comprensione ma perché nella nostra professione ci sono cose che vanno viste, sentite…vanno vissute!
Ogni infermiere vive la propria professione in maniera differente, ogni reparto plasma il singolo in base alle proprie esigenze, chiunque indossa la divisa propone una visione, un vissuto a sè.
Differentemente da quanto si crede l’infermiere non è uno, non è lo “stesso”, non è un tuttofare. In ogni ambito, specialistica, branca, la formazione e le competenze che si acquisiscono sono differenti.
Il nostro percorso inizia durante un tirocinio, nei reparti, quelli dove la malattia la percepisci dal vivo attraverso gli occhi dei pazienti. Dove la sofferenza del malato la senti; l’abbandono e lo sconforto di alcuni ti rimane addosso, dove la guarigione è una vittoria e la morte una sconfitta.
Dopo la laurea prosegui, cerchi di capire qual è la tua strada: la mia è iniziata in un pronto soccorso. La visione cambia ancora.
La malattia la vivi di passaggio, tutto si muove in fretta, non comprendi cosa accade, agisci e basta.
Non hai tempo di soffrire o gioire sul momento perché, tecnicamente parlando, la Golden hour è un lusso che spesso non puoi permetterti.
Ti incammini di nuovo, ricominci da zero, scopri una nuova realtà.
Sono approdata in sala operatoria e ancora una volta ho cambiato visione. Qui la malattia la tocchi con mano in un luogo che tanto dà, quanto toglie.
Un luogo magico, pieno di luci e motori, dove il tempo è prezioso, dove ogni singola cosa trova il proprio posto per fa sì che tutti i meccanismi di questo grande ingranaggio funzionino a dovere.
Un mondo che regala e toglie sorrisi, che dà ossigeno e ti lascia senza fiato, un luogo che accelera e rallenta a tempo di un battito.
In sala impari a vivere diversamente la malattia, vedi solo lei, la tocchi con mano, la elimini o la lasci, vinci o perdi, in una battaglia continua.
Il contatto fisico, verbale con il paziente è quasi inesistente, ti relazioni con un organo che vedi rinascere o soccombere, con un corpo che viene scomposto e ricomposto.
I tuoi interlocutori sono degli strumenti, strumenti che impari a manovrare con eleganza e gentilezza, di cui impari ad apprezzarne la voce e a prendertene cura, a comprenderne la forza e la delicatezza.
La sterilità diventa la tua migliore amica, un’amica invisibile e preziosa di cui ne custodisci l’ importanza.
Ecco questo è il mio lavoro, la mia professione, quella che ho scelto, un po’ per caso, che poi mi è rimasta attaccata addosso e che per quanto a volte sia difficile non cambierei per nulla al mondo.
Che per quanto inizi a conoscerla c’è sempre da imparare e da migliorare, che per quanto provi a scinderla dalla mia vita privata rimane sempre al mio fianco.
E che per quanto la gente dica:
- ”Siete solo infermieri e non medici”
- ” Voi siete solo infermieri che fanno terapia e giro letti”
- “Siete solo infermieri a volte eroi, a volte esibizionisti”
- “Siete solo infermieri, in qualunque reparto”
Siamo in realtà solo uomini e donne, professionisti, che con o senza divisa fanno del loro meglio, che studiano, che si formano per fornire cura e assistenza nella maniera più efficiente, prima alla persona e poi alla malattia che porta con sè.
Sara Barile, infermiera strumentista
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