Aurora è una dei tanti operatori sanitari che quotidianamente cercano di prestare assistenza in condizioni proibitive alle persone malate.
È un’infermiera del Cardarelli, una delle tante vittime di aggressione subite ad opera di una persona che cercava di aiutare.
Dopo che il collega ha ricevuto i primi pugni, ha cercato di allertare la polizia. Subito dopo la fuga per evitare il peggio.
«Quando quell’uomo ha sentito che avevo chiesto l’intervento del 113 – racconta – è andato in escandescenza».
Riportiamo di seguito l’intervista rilasciata al “Corriere del Mezzogiorno”.
Ha avuto paura che aggredisse anche lei?
«Beh non credo che si sarebbe fatto scrupoli solo perché sono una donna. Lei non ha visto come ha ridotto il collega del 118, uno così poteva fare qualunque cosa».
Per essere un ferito era in forze, le pare?
«Già, in realtà avrebbe potuto evitare di farsi trasportare dal 118. Ha solo occupato inutilmente un mezzo, senza parlare del fatto che ha provocato un trauma cranico a chi era lì per prendersi cura di lui. È entrato come codice verde, questo significa che non aveva nulla di serio».
Nonostante tutto ha saputo tenere il sangue freddo.
«Chi come me lavora nell’emergenza non si scompone troppo. Quell’uomo era di corporatura robusta e pieno di tatuaggi, anche se non avesse aggredito un collega, l’aspetto mi avrebbe comunque messa in allarme. Sono scappata nello spogliatoio perché ho capito che stava per scattare».
È mai stata aggredita a lavoro?
«A me non è mai capitato, ma ci sono andata vicino molte volte. Anni fa, il padre di un ragazzo mi ha inseguita. Avevo assegnato al figlio un codice giallo per una polmonite, quando chiesi come mai avesse portato il figlio in ospedale, e non dal medico di famiglia, andò fuori di testa. Per alcune persone è normale prendere a testate un medico o un infermiere. Quasi come se fosse conseguenza naturale di una discussione».
Come donna, è più difficile fare questo lavoro?
«Non so se è più difficile, credo che sia dura per tutti. Ma ripeto, non ho paura, sono arrabbiata». Cosa si potrebbe fare per cambiare le cose? «Le telecamere possono aiutare, ma serve anche il riconoscimento di status di pubblico ufficiale. Serve una denuncia automatica, d’ufficio.
E poi servirebbe una sorta di “schedatura” dei pazienti che aggrediscono. Così da allertarci quando dovessero tornare in pronto soccorso. Chi aggredisce una volta probabilmente lo rifarà».
Cosa pensa la sua famiglia, hanno paura?
«Quando sono con loro ho sempre un atteggiamento molto pacato. Non porto il lavoro a casa, anche se l’adrenalina della giornata è qualcosa che ti resta addosso. Credo che mio marito preferirebbe che io facessi altro e anche i miei figli hanno paura».
Lei ha mai pensato di mollare?
«Faccio questo lavoro da 30 anni, non lo cambierei per nulla al mondo. L’ho scelto io, prima studiavo pedagogia. No, non cambierei. Non ho mai avuto problemi con i pazienti, perché riesco a farmi capire e a stabilire con loro un buon canale di comunicazione. I problemi maggiori si hanno con i familiari, che spesso sono aggressivi».
Se potesse, cosa direbbe a chi aggredisce?
«Che non ha senso prendersela con chi sta cercando di aiutarti».
Ancora una volta, uno dei tanti accessi impropri ed immotivati ha generato un impeto di violenza che ha esposto al pericolo tutti gli operatori sanitari presenti. Come porre fine a tutto ciò?
Simone Gussoni
Fonte: Corriere del Mezzogiorno
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