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Massimo Randolfi

PsicoPoint: quanti Professionisti sono in grado di Ragionare Analiticamente?

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Un nuovo appuntamento con PsicoPoint, la rubrica a cura del dott. Giuseppe Marino sta per avere inizio.


 Un problema irrisolto è un problema che cresce.

Ti è mai capitato di incontrare alla macchinetta del caffè il tipico infelice da combattimento? Sono quei personaggi che a lavoro frequentano gli ambienti dove può germinare il seme della chiacchiera, o meglio della lamentela no stop. Ci sono quelli che preferiscono gli ambienti rumorosi, dove la folla è un sottofondo.

Oppure ci sono quelli che preferiscono isolarsi, perché il discorso possa essere circoscritto solo a pochi interlocutori. Spesso li incontri anche in treno; per chi fa il pendolare, o lo ha fatto, la figura dell’disperato seriale è un topic. Sono tipi sospiranti, malinconici: ti osservano come per domandarti aiuto.

Allora tu abbassi la guardia e chiedi: «Come va? Tutto bene?».

Sei in trappola! La scaletta che segue è pressappoco sempre questa: ci si presenta, si fa una breve descrizione delle proprie esistenze e nel mentre si avverte chiaramente l’intenzione dell’infelice di dirottare il discorso sulle proprie difficoltà lavorative e sul suo sconforto cosmico.

Fin qua quasi nulla di male, anzi: parlare dei propri problemi aiuta, inoltre avere un parere differente può aprire nuove chiavi di lettura e dare spunti di riflessione per orientare gli sforzi o cambiare la situazione.. ma con queste persone – che ci si trovi in treno o sul posto di lavoro – sappiano tutti che il più delle volte non va così.

Il più delle volte accade che il triste narratore descriva il problema come qualcosa di assolutamente stagnante, rigido ed irremovibile.

Sembra come se man mano che la descrizione prosegua la difficoltà prenda la forma di un pantano paludoso che si ingigantisce tutto attorno a noi.

È una situazione spiacevole perché arriva il punto in cui ci sentiamo anche noi invischiati: così, in un momento di lucidità o di compassione per il nostro interlocutore, in un momento di lotta alla sopravvivenza o di piccola rivoluzione a quell’indolenza narrativa.. proviamo a dire: «Ma scusa, perché non cambi?» .. oppure «.. Ma perché non provi a fare qualcosa?».

Talvolta la soluzione ci sembra così evidente che non utilizziamo neppure l’interrogativa o il condizionale: diciamo proprio cosa fare! Eppure nulla.
In quel momento è come se avessimo pronunciato una formula magica! Con un potente sortilegio abbiamo evocato il mostro: la frase fatta!

“Sì, ma non ho scelta..”“Magari potessi fare..”“Sarebbe davvero bello..” ecc. ecc. ed il discorso torna al suo mugugno.

Questo accade perché ci sono una serie di domande che puntualmente mettono in scacco discorsi di questo tipo e li azzoppano. Già, perché una domanda come come mai non cambi?” è decisamente scomoda, soprattutto per chi si lamenta continuazione.

Perché? Perché in quel momento la persona che state ascoltando probabilmente non riesce a considerare alcuna soluzione, forse non la vuole neppure. Inconsciamente, con quel suo modo di fare, sta solo cercando di attirare a se l’attenzione degli altri, in maniera del tutto tragica e senza rendersi conto che sta solo procrastinando le difficoltà e prima o poi queste diventeranno davvero troppo grandi per essere gestite. Un problema irrisolto è un problema che cresce.

Nell’aria c’è la voglia di cambiare, ma deve farsi spazio con forza.

Eppure, per quanto la descrizione di questo ruolo possa sembrarci lontana dalla nostra personalità, tutti noi possiamo incappare nel circolo vizioso.

Molto spesso le cose possiamo davvero cambiarle, ma ci sono scelte ed opportunità che noi non prendiamo neppure in considerazione! Non le adocchiamo o non siamo più abituati a vederle. Allora è davvero difficile recuperare la serenità, perché lasciandoci sfuggire dalle mani la situazione non riusciamo più ad avvertirne il controllo e non ci sentiamo responsabili di ciò che accade.

Così, diventa estremamente facile cadere nella trappola del “se mi lamento qualcuno verrà a giustificarmi ..” – L’importante allora è non disperarsi perché c’è il rischio di tramutarsi poco a poco in infelici seriali.

Le nostre lamentele non devono diventare il nostro modo di essere per posizionarci all’interno di un contesto.

In questi casi Sherlock Holmes avrebbe una soluzione e la riassumerebbe nella frase “Ci sono 50 persone che sanno ragionare sinteticamente per una sola che sa ragionare analiticamente.”

Cosa significa? Beh, è un’esortazione ad analizzare i problemi in maniera precisa e consapevole, non ammucchiandoli e creando il caos, ma sezionandoli e esaminandoli in maniera chiara ed oggettiva.

Holmes ci inviterebbe a non arrischiarsi in considerazioni affrettate, ma bensì domandarsi sempre quale sia il nostro grado di responsabilità, chiedendosi quanto effettivamente si sappia del fatto e riflettendo sulla nostra effettiva conoscenza della situazione; poi ci esorterebbe a pensare agli strumenti in nostro possesso per far fronte al problema e quindi alle sue possibili soluzioni.

Quindi non perdiamo la bussola della consapevolezza e rimaniamo sempre sul pezzo: sapere dove eravamo e dove possiamo arrivare, avere coscienza di dove siamo, capire quali strumenti abbiamo a disposizione per migliorarci, essere curiosi ed interessati a nuove esperienze, significa lasciare il terreno paludoso della lamentazione e pensare in modo speranzoso al futuro. Elementare, no?


Ringraziamo il dottor Giuseppe Marino per il tempo dedicato all’analisi della professione infermieristica. Invitiamo tutti i nostri lettori a non perdere il prossimo appuntamento con PsicoPoint, tra sette giorni.

Simone Gussoni

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