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Pochi infermieri in pediatria, aumenta il rischio di mortalità per i bimbi

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Esercizio abusivo della professione: Opi La Spezia smaschera infermiere non iscritto all’Ordine
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Presentatato oggi in Senato il Report realizzato da 12 aziende ospedaliere aderenti all’Aopi.

La carenza di infermieri, così come quella di medici e personale in genere della sanità, è un’emergenza nota da tempo. Ma che coinvolgimento nell’organizzazione aziendale, appropriatezza nell’uso del personale e delle risorse e buona organizzazione possano comunque supplire alle carenze mantenendo alta la qualità dell’assistenza è fatto meno scontato.

A rilevarlo è l’ampio studio, presentato oggi in Senato, realizzato da 12 aziende ospedaliere pediatriche aderenti all’Aopi, l’Associazione degli ospedali pediatrici italiani, che aderisce alla Fiaso, la Federazione delle aziende sanitarie pubbliche. Un’indagine compiuta dai ricercatori del gruppo di studio italiano RN4CAST@IT-Ped attraverso una survey che ha coinvolto infermieri e caregiver (vedi il commento di Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi).

Le criticità dovute alla carenza di personale

Punto di partenza i livelli di staffing. Tradotto: il rapporto tra il numero di pazienti e di infermieri in reparto. I dati in letteratura dicono che ci si dovrebbe assestare su un valore di 4 pazienti per ciascun infermiere, mentre la media negli ospedali pediatrici è di 1 a 6,6 pazienti. In pratica ogni infermiere segue almeno due pazienti in più di quello che gli standard di sicurezza consiglierebbero.

Ma le cose variano da un’area all’altra di assistenza. Il rapporto dovrebbe essere di 3 o 4 a uno nelle aree chirurgica e medica, di 1 o persino 0,5 per le cosiddette “aree critiche”, come terapie intensive e rianimazioni. Numeri lontani dalla realtà rilevata dall’indagine, che ha calcolato un rapporto di 5,93 per la chirurgia, 5,7 per quella medica e 3,55 per l’area critica. Con questi livelli di staffing non è poi facile ottemperare a tutte le attività. Su 13 funzioni assistenziali giudicate necessarie sono state 5 in media quelle che ciascun professionista ha dichiarato di aver dovuto tralasciare per mancanza di tempo nell’ultimo turno.

E la carenza di personale in genere finisce anche per dover impegnare i già pochi infermieri in attività che infermieristiche non sono. Come eseguire richieste di reperimento materiali e dispositivi, capitato almeno una volta durante l’ultimo turno nel 54% dei casi in area chirurgica, 55% in area medica e 39% in quella critica. Oppure compilare moduli per servizi non infermieristici (rispettivamente nell’80, 72 e 66% dei casi), svolgere attività burocratiche (81, 79 e 65% dei casi) o più banalmente rispondere al telefono per attività che nulla a hanno a che vedere con l’assistenza in ben oltre il 90% dei casi in tutte le tre aree assistenziali.

Dover seguire molti pazienti può anche essere stressante. Nei 12 ospedali pediatrici il 32% degli infermieri è finito nell’area del burnout, la sindrome da esaurimento emozionale che colpisce chi per professione si occupa delle persone. Ma i valori nelle tre aree di assistenza rilevano un livello di burnout definito “medio” in letteratura.

I punti di forza di una buona organizzazione

Nonostante ciò si ritiene soddisfatto del proprio lavoro il 73,5% degli infermieri dell’area chirurgica e rispettivamente il 74 e il 77,1% di quelle medica e critica. Percentuali simili si rilevano anche tra chi non pensa in alcun modo di lasciare entro il prossimo anno il proprio ospedale per trovare altrove condizioni di lavoro migliori. Anche se le cose cambiano un po’ per i professionisti con più anzianità alle spalle (tra i 21 e i 30 anni di servizio), dove nell’area chirurgica a pensare di lasciare è il 42% contro medie del 31,8 e del 30,4% per l’area medica e quella critica.

Questo grazie a un ambiente lavorativo che l’indagine definisce “favorevole”, dopo l’attento esame di cinque fattori lavorativi: 1) appropriatezza dello staffing e delle risorse, 2) rapporto medico-infermiere, 3) capacità di leadership del coordinatore infermieristico, 4) presupposti per la qualità dell’assistenza infermieristica, 5) coinvolgimento degli infermieri nell’organizzazione aziendale. Data una scala da 1 a 4 il valore medio nell’ambito dell’assistenza pediatrica per tutte le 5 dimensioni è stato un soddisfacente: 2,65, con valori più alti per le dimensioni 2, 3 e 4.

Tutto questo si traduce poi in quel che più conta, ossia la qualità delle cure infermieristiche fornite ai pazienti, giudicata “positiva” dall’81,7% dei professionisti impegnati nell’area medica e rispettivamente dall’83,5 e l’85,4% di quelli delle aree chirurgica e critica. Percentuali molto alte di giudizi positivi anche rispetto alla sicurezza delle cure, promossa dall’87% nell’area chirurgica, l’88 e il 90,4% di quelle medica e critica.

La comunicazione con caregiver e bambini

Estremamente positive anche le esperienze comunicative dei caregiver con gli infermieri e il personale medico.

Riguardo agli infermieri:

– il 62,8% dei caregiver ha affermato che gli infermieri hanno sempre prestato ascolto con attenzione;
– il 59,7% che gli infermieri hanno sempre spiegato le cose in modo comprensibile;
– il 73,8% che gli infermieri hanno sempre mostrato cortesia e rispetto.

Riguardo ai medici:

– il 64,5% ha affermato che i medici hanno sempre prestato ascolto con attenzione;
– il 65% che hanno sempre spiegato le cose in modo comprensibile;
– l’81,1% che hanno sempre mostrato cortesia e rispetto.

Riguardo, infine, alla comunicazione al bambino:

– il 63,9% dei caregiver ha affermato che gli operatori sanitari hanno sempre fornito informazioni su cosa fosse necessario fare per il bambino;
– il 58,71% (N=792) ha affermato che gli operatori sanitari hanno sempre fornito informazioni sui risultati degli esami diagnostici.

Particolarmente apprezzata la preparazione al ritorno a casa. Nel dettaglio:

– il 53,2% ha affermato che gli operatori sanitari si sono informati se il caregiver avesse dubbi o preoccupazioni su quanto fosse pronto il bambino alla dimissione;
– l’85,8% che gli operatori sanitari hanno dedicato il tempo da lui desiderato per parlare delle cure necessarie dopo la dimissione;
– il 75,6% che gli operatori sanitari hanno spiegato in maniera comprensibile quando il bambino sarebbe potuto tornare alle sue normali attività;
– il 79,6% che gli operatori sanitari hanno spiegato in maniera comprensibile problemi o sintomi a cui prestare attenzione dopo la dimissione;
– il 70,5% ha affermato di aver ricevuto informazioni scritte riguardo problemi o sintomi a cui prestare attenzione dopo la dimissione.

“L’aumento anche di un solo paziente del carico di lavoro infermieristico e quello del 10% della attività che non si è riusciti a svolgere sono elementi associati dalla letteratura rispettivamente al 7 e al 16% di rischio di mortalità a 30 giorni dal ricovero di pazienti sottoposti a comuni interventi chirurgici ricorda Paolo Petralia, presidente Aopi e dg dell’Irccs ‘Gaslini’ di Genova, che ha partecipato all’indagine. “Ciononostante, il Report mostra come una buona organizzazione aziendale possa sopperire in buona parte alle carenze di personale e permettere di garantire comunque una buona qualità delle cure e la messa in sicurezza dei pazienti”.

Francesco Ripa di Meana, presidente Fiaso, rilancia: “I risultati dell’indagine, pur focalizzati su un aspetto particolare e delicato dell’assistenza com’è quella rivolta ai più piccoli, mostrano ancora una volta che senza il contributo fondamentale dei professionisti e di un management all’altezza il nostro Ssn sarebbe già naufragato da un pezzo. Abbiamo fatto un miracolo operando tra ristrettezze economiche e di personale. Ora occorre cambiare passo, dando priorità a un grande piano per le assunzioni e per l’ammodernamento tecnologico delle strutture”.

Redazione Nurse Times

Fonte: www.fnopi.it

 

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