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Personale sanitario in fuga da Trento, lo sfogo di un infermiere e una dottoressa: “Ecco perché preferiamo Bolzano”

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Lo sfogo di un'infermiera in cerca di lavoro: "Essere bravi non conta nulla"
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Non cambia la regione, ma cambiano orari e stipendi. Due sanitari spiegano a l’Adige i motivi della loro scelta.

«Perché me ne vado dall’Azienda sanitaria dopo tanti anni di lavoro? Perché a Bolzano mi pagano di più, mi offrono maggiori benefit e incentivano quella formazione che qui da noi, negli ultimi anni, hanno tagliato di netto». A parlare è un infermiere che chiede di rimanere anonimo e che sta aspettando che a giorni, a Bolzano, formalizzino la sua posizione.

«A quel punto chiederò prima un anno di aspettativa e poi la mobilità», racconta. Lui come altri, dunque, non figurerà nell’elenco dei dimissionari, ma di fatto, a breve, non lavorerà più in reparto. «La differenza di stipendio è elevata. Attualmente prendo sui 1.800 euro con 20 anni di anzianità, turni, notti, libera professione. Andrò a prenderne di base 2.400. Lì, poi, frequenterò un corso per il patentino B2 che in parte mi rimborseranno, e a quel punto il mio stipendio salirà di altri 300 euro. Mi offrono inoltre la possibilità di svolgere la libera professione, e quindi posso arrivare tranquillamente a 3mila euro».

Ma ad attirare questo professionista, a cui è stato offerto anche un alloggio a condizioni agevolate, sono soprattutto gli orari: «Ho chiesto di lavorare su turni di 12 ore e la mia domanda è stata accolta. Quindi lavorerò tre giorni, e quattro rimarrò a casa. Questo mi consentirà di limitare i viaggi verso Bolzano, ma soprattutto di avere più tempo per la mia famiglia. Quello che poi non capiscono i vertici è che un professionista non può rimanere da solo con 20 pazienti. Per questo c’è malcontento generale. Per questo le persone se ne vanno».

Un disagio confermato anche da una dottoressa che ha lasciato l’Azienda già da alcuni anni: «Con il Covid la situazione, già critica, è precipitata, ma i segnali del peggioramento c’erano già prima. Quando sono arrivata in Trentino, 16 anni fa, era un’oasi felice. I professionisti sapevano che a Trento si lavorava bene e presentavano domande. Oggi non è più così».

Ma cosa chiede un professionista all’azienda per cui lavora? «Semplice – dice la dottoressa -, di non essere schiavizzato. Non possono pensare di fare sempre tutto a isorisorse. Io ho lavorato sempre nei pronto soccorso e non è pensabile che, se un medico fa un buon lavoro con un tot numero di pazienti, lo possa fare altrettanto bene con il doppio». Quindi i carichi di lavoro erano elevati? «Direi spropositati, tanto che ogni mese dovevo lavorare 168 ore. Ma alla fine arrivavo a farne 210, 220, anche 230».

C’è poi la questione economica: «Quando me ne sono andata prendevo 85mila euro lordi all’anno. Con il mio trasferimento sono subito passata a 110. In questo periodo sento che in Trentino tanti si stanno lamentando e tanti se ne stanno anche andando. Ci sono servizi che vanno remunerati, e quello del pronto soccorso è uno di questi. Ogni giorno viviamo uno tsunami, con tante diagnosi da fare, poco tempo, alte responsabilità. Questo vale ovunque, a Bolzano come a Trento. Ma lì c’è anche il problema di alcuni dirigenti, non tutti, che scambiano l’essere autorevoli con l’essere autoritari. Un peccato, perché la sanità trentina, con tutti i soldi che ha a disposizione, poteva – anzi, doveva – rimanere un fiore all’occhiello».

Redazione Nurse Times

Fonte: l’Adige

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