Guida per difendersi da un fenomeno dilagante anche in ambito infermieristico.
In un momento storico caratterizzato da denunce di molestie psicologiche e/o fisiche in ogni ambiente (dal famigliare al lavorativo), è doveroso riportare alla mente il tema del mobbing.
Il termine mobbing deriva dal verbo “to mob“, ossia “molestare”, e definisce tutte le forme di abusi nei confronti di terzi che avvengano ovunque, compreso il luogo di lavoro. Se una o più persone (il/i mobber/mobbers) mettono in atto comportamenti quali diffusione di notizie non veritiere, umiliazioni pubbliche, reiterati richiami all’ordine per motivazioni inconsistenti e così via, che tendano in ogni caso ad emarginare dal gruppo sociale di appartenenza un soggetto (lo chiameremo vittima), si palesa un caso di mobbing. È importante sottolineare l’emarginazione dal gruppo sociale di appartenenza in quanto, nel setting lavorativo infermieristico (generalmente le unità operative, e di questo setting tratteremo nello specifico), il gruppo che si forma ha una valenza fondamentale ai fini delle dinamiche di reparto.
In un team sportivo, per far sì che il prodotto finale sia la vittoria, il coach deve essere in grado di mediare, spronare, capire, indirizzare, abbassare i toni quando questi si alterano e favorire la comunicazione tra pari (peer-to-peer), sforzandosi di porsi nello stesso modo con tutti i componenti del gruppo, rimanendo super partes, dimenticando amicizie e inimicizie. Allo stesso modo, in un’unità operativa, dove il prodotto finale è la salute del paziente e dei familiari, il coordinatore non può esimersi da quanto indicato in precedenza. La frustrazione e la sofferenza di un professionista che non si sente riconosciuto come tale da colleghi e superiori può infatti comportare distrazioni durante l’attività lavorativa, con conseguenze anche molto gravi. Per non parlare dei cosiddetti processi di burn-out e dei seri danni psichici che possono svilupparsi nella vittima.
Come detto, tale fenomeno può svilupparsi tra pari, e allora si chiamerà mobbing orizzonatale (low-mobbing). Oppure nascere dall’atteggiamento di un superiore, e allora parliamo di mobbing verticale (bossing). Anche l’esclusione della vittima da meeting virtuali o reali del personale dipendente, voci di corridoio che tendano a ledere l’immagine e la reputazione lavorativa, o il ridimensionamento di ruolo che non permetta la crescita del professionista, sono forme di mobbing.
Le motivazioni alla base del fenomeno sono molteplici, ma nessuna giustificabile. Pensiamo al dipendente che rifiuta le avance da parte di un superiore o di un collega. Altre volte è pura tattica, quella che si cela dietro il tutto. Ciò accade quando, per esempio, il mobber cerca un capro espiatorio per alcune problematiche interne o per raggirare le politiche inerenti il licenziamento, spingendo la vittima ad abbandonare volontariamente il luogo di lavoro o, peggio ancora, a commettere errori tali da giustificare il licenziamento.
Riferimenti legislativi inerenti al mobbing sono ormai presenti, ma non del tutto definiti. Manca, infatti, la configurazione vera e propria del reato di mobbing. La prima definizione in ambito legislativo del fenomeno si osserva con la sentenza n. 20.230 del 25 settembre 2014. Nel corso degli anni la legislazione è andata avanti, ma restano ancora difficoltà non facilmente sormontabili da parte della vittima per ottenere giustizia. Uno dei maggiori problemi consiste nel produrre prove esaustive della condotta illecita di cui si è rimasti vittima sul luogo di lavoro. In ogni caso, i processi che ne possono scaturire riguardano sia l’ambito penale che quello civile.
Tornando all’ambiente sanitario, un infermiere che si trovi in questa situazione dovrebbe anzitutto rivolgersi alla direzione delle professioni sanitarie della struttura e, in un secondo momento, al collegio di riferimento, denunciando l’accaduto. Ma nell’Italia che ormai conosciamo e che da Nord a Sud si fonda sul clientelismo e sull’amicizia tra “cravatte”, non ci sarebbe da meravigliarsi se, dopo la denuncia, la vittima si sentisse rispondere picche. Si tratta, infatti, di una partita a carte dove il mazzo è cambiato a piacimento da chi si ha di fronte, cioè da soggetti per i quali la vittima è spesso solo un numero di matricola.
Manuel Noviello (infermiere di terapia intensiva cardiochirurgica all’ospedale S. Gerardo di Monza)
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