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«Mi sento solo un numero di badge, ma non mollo»

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"Mi sento solo un numero di badge, ma non ho intenzione di mollare"
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Un giovane Infermiere che si è da poco affacciato al mondo del lavoro ha dovuto fare i conti con una cruda realtà. Ha pertanto deciso di chiedere aiuto al presidente del collegio provinciale Ipasvi di appartenenza, Danilo Masai. Ecco la sua testimonianza, parzialmente riportata da Repubblica.


«Mi sento un numero di badge… Non mi sento il cambiamento, mi sento un poveraccio, perché ho fatto una scelta, che è quella di provare a costruire una vita qui, di non fare come i miei colleghi che sono andati all’estero. Ma oggi, dopo due anni, vedo loro che fanno carriera e vedo me che, se prendo una multa per divieto di sosta, so che per pagarla devo stringere la cinghia».

Questa è la testimonianza di un giovane infermiere che, stanco della propria situazione, ha deciso di inviare una mail al presidente del Collegio IPASVI Firenze-Pistoia, Danilo Massai. Nel testo inviato è possibile leggere tutto il disagio che un neolaureato è costretto a tollerare pur di poter lavorare. Sfruttamento, precariato e demansionamento la fanno sempre da padroni.

«Vi scrivo perché credo nella nostra professione e credo che non meriti di essere maltrattata, come non lo merita chi sceglie di farla, meritiamo rispetto e riconoscimento. Vi scrivo perché non ho intenzione di mollare e credo che siate voi quelli che possono dare a me, e a quelli che sono nella mia stessa situazione, gli strumenti e la forza di essere quel cambiamento che avremmo dovuto essere già».

Il collega mette in evidenza come non sia sufficiente lavorare con passione e impegno per garantire un’assistenza ottimale.

«Sono infermiere di RSA da ormai 2 anni – si legge nella lettera – il primo anno sono stato assunto con un contratto diretto con la struttura in cui ho lavorato, per poi essere scaricato perché la normativa vigente sul lavoro prevedeva che una nuova assunzione costasse meno a livello di tasse e quindi, dopo 12 mesi di servizio in cui ho fatto 160 ore mensili […], sono stato “rimesso sul mercato del lavoro”, ho avuto la fortuna di trovare lavoro dopo circa un mese e per un ragazzo come me che paga l’affitto di tasca propria […].

«Ho un contratto part time e all’inizio lavoravo da giornaliero, che poi giornaliero non ero dato che facevo 2-3 notti mensili, ma ho accettato, ho dovuto accettare, l’affitto non si paga da solo. Mi hanno promesso che le ore mensili sarebbero aumentate e con quella promessa in tasca ho lavorato i primi mesi. All’arrivo di ogni busta paga, che ho fortunatamente imparato a leggere subito, vedevo che la paga era superiore al numero di ore lavorate, ma vedevo anche che il monte ore era in negativo, la cosa allarmante era che solo nel primo mese di assunzione, ero “sotto” di oltre 40 ore. Questo perché l’affiancamento non è pagato, ed ecco che ho regalato 10 giorni di lavoro, incluso un turno di notte […]. Ho accettato l’affiancamento gratuito, ho dovuto accettare, le bollette non si pagano da sole.

«Per mesi sono stato costretto ad accettare ogni cambio possibile per aumentare le ore lavorate […]: mattina-notte, mattina-pomeriggio senza stacco tra i due turni o altre combinazioni che mi consentissero non di recuperare, ma di non andare sotto con le ore lavorate, perché non mi venivano garantite le ore previste dal contratto. Dopo 5 mesi di lavoro ero sotto di 120 ore, praticamente più di un mese di lavoro […]

«Sono ora turnista, ma mi vengono comunque offerti turni “strani”, proseguono i mattina-notte, le doppie notti e i turni lunghi, cominciano i rientri sui liberi. E ogni volta mi viene “offerto” un turno aggiuntivo mi viene detto: “devi recuperare ore”, con un tono più minaccioso che amichevole.

«Io stringo i denti e accetto la maggior parte dei turni, un pochino per solidarietà verso i miei colleghi che chiedono giorni liberi, un pochino perché ho voglia di recuperare le ore non lavorate, benché consapevole che 40 di queste le ho lavorate, ma non mi verranno pagate. Ripeto a me stesso che ho un contratto a scadenza, che devo aspettare un momento migliore, che prima recupero, prima avrò possibilità di vedere i miei turni ridotti e magari andare “sopra” nel monte ore, come è stato. D’estate ho modo di recuperare più di 40 ore mensili e in 4 mesi sono in parità… parità… a me quelle 40 ore di affiancamento lavorate nessuno le pagherà mai».

E poi un capitolo a parte, le notti: «Ogni 5 giorni, da buon turnista, sono in turno di notte, siamo io e un OSS (quando va bene, a volte sono con un OTA o un ADB, insomma, personale che le notti non le potrebbe fare, ma si fa finta che possa), siamo in due con 75 persone, di cui: 3 portatrici di PEG che vanno idratate ogni 2 ore e 11 persone con sindrome da immobilizzazione che devono essere posizionate ogni 2 ore. In più l’infermiere notturno è l’addetto di primo soccorso in caso di incendio (mai fatto il corso antincendio), deve fare le pulizie a fondo e la sanificazione dell’infermeria, deve controllare periodicamente le cartelle dei pazienti […], i farmaci mancanti […], i presidi mancanti, facendo in modo che siano in ordine e che ci sia tutto, deve somministrare la terapia della sera.

«Inoltre, l’infermiere notturno deve fare l’OSS, deve fare i giri di controllo dei pannoloni e cambiarli insieme all’OSS, e lo deve fare “perché qui si fa così” e quando ho detto che non è una cosa professionale, […] e che ci dovrebbero essere 2 OSS e 1 infermiere, mi sono sentito dire che “o fai così o ti leviamo dalle notti”, che significherebbe tornare sotto col monte ore […].

«Lungi da me dire che un infermiere non debba cambiare un pannolone, sono felice di essere di aiuto alle altre figure professionali quando queste hanno bisogno, ma dato che la somministrazione della terapia notturna, il controllo delle cartelle, il controllo e l’ordine dei farmaci e dei presidi mancanti, l’idratazione e la mobilizzazione sono compiti che portano via molto tempo, perché devo anche fare quello che sarebbe il lavoro di altre figure? […]».

Tutto questo senza un reale riconoscimento economico: «L’unica cosa bella del turno di notte è che […] si stringono rapporti di fiducia forti e si riesce a scoprire cose interessanti, tipo che gli OSS hanno la mia stessa paga oraria […] e che, anzi, molti degli OSS che lavorano con me hanno scatti di anzianità o contratti diversi che prevedono una paga maggiore rispetto alla mia. Però io quella paga l’ho accettata, ho dovuto accettarla […].

«Ma oggi, che vi scrivo queste righe, oggi che sono vicino alla scadenza del mio contratto e non so se mi sarà rinnovato, se il numero di ore lavorative aumenterà anche sul contratto o se sarà presa la decisione di lasciarmi per strada. Oggi sono stanco. Oggi sono infermiere da 3 anni, riesco a fare il mio lavoro da 2. Pago l’affitto, le bollette, l’assicurazione della macchina, la tassa di iscrizione al Collegio, la spesa, i vestiti (tra cui la divisa di lavoro, perché me ne viene fornita solo una e, se voglio un cambio, devo pagarla e poi devo lavare tutto a casa) e faccio fatica a concedermi qualche extra.

«Oggi non vedo quel mondo in cui io possa essere il cambiamento. Oggi vedo solo quel mondo in cui capisco i miei colleghi ed ex compagni di studio che sono andati all’estero, o in cui vedo i miei ex compagni di studio con i genitori medici che li hanno messi a lavorare dove volevano (nel privato).

«Oggi ho incontrato un’infermiera che è stata mia docente. Mi ha detto che tornerebbe di corsa a lavorare nel privato, perché quando ci lavorava “ero pagata oltre 2.000 € al mese e lavoravo meno e in condizioni migliori rispetto a ora che lavoro nel pubblico”. La vedo sgranare gli occhi quando le dico che sono pagato 1.070 € al mese quando faccio tutte le notti (senza turni di notte la paga base è di 990 €), la vedo incredula… e vedo i miei colleghi che lavorano con la partita IVA nel pubblico, che sono precari e che mi invidiano, perché io sono “assunto” […].

«La mia indipendenza la sto pagando cara, la sto pagando con la voglia che mi va via, con la stanchezza di fare un lavoro che amo, dopo appena due anni che lo faccio… Perché ogni giorno rischio una denuncia per tutto quello che faccio sul lavoro e non posso permettermi un’assicurazione sanitaria… Mi sento un numero di badge… Non mi sento il cambiamento, mi sento un poveraccio, perché ho fatto una scelta, che è quella di provare a costruire una vita qui, di non fare come i miei colleghi che sono andati all’estero… Ma oggi, dopo 2 anni, vedo loro che fanno carriera e vedo me che, se prendo una multa per divieto di sosta, so che per pagarla devo stringere la cinghia su altro […]».


Le problematiche evidenziate dal collega sono sicuramente comuni a molti altri professionisti sanitari.

Considerando la situazione politica ed economica italiana, sarà davvero possibile che cambi qualcosa?

Simone Gussoni

Fonte: Repubblica.it

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