Lo ha realizzato un gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Perugia.
Un nuovo studio sull’utilizzo di biomarcatori misurabili nel liquido cerebrospinale e nel sangue al fine di ottimizzare l’individuazione di nuove terapie per le principali malattie del sistema nervoso centrale è stato condotto dall’Università degli Studi di Perugia. Porta la firma del gruppo di ricerca diretto dalla professoressa Lucilla Parnetti, responsabile della Sezione di Neurologia, Laboratorio di Neurochimica clinica ed è stato pubblicato sulla rivista internazionale Trends in Pharmacological Sciences.
“Malattie neurologiche croniche e altamente disabilitanti, come la sclerosi multipla, la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson, sono sostenute dall’interazione di complessi meccanismi biologici che possono essere misurati in maniera affidabile nel liquido cerebrospinale e nel sangue – spiega la professoressa Parnetti –. Nell’ultimo decennio la ricerca sui biomarcatori nelle malattie neurologiche, ambito nel quale il Laboratorio di Neurochimica clinica dell’Università di Perugia è particolarmente attivo e parte di una rete di collaborazione a livello europeo, ha portato a rivoluzionare il modo di porre la diagnosi di queste malattie, rendendola più precoce e accurata”.
Aggiunge Parnetti: “La ricerca pubblicata da Trends in Pharmacological Sciences analizza in dettaglio il ruolo che diversi biomarcatori misurabili su liquido cerebrospinale e su sangue possono avere nella ricerca sulle terapie per le malattie neurologiche. Questi test permettono di identificare i pazienti con le caratteristiche ideali per poter avere beneficio dal trattamento con i nuovi farmaci che bloccano i meccanismi delle diverse patologie neurologiche. Ad esempio, se si vuole testare l’efficacia di un nuovo trattamento rivolto a bloccare uno specifico meccanismo alla base di una malattia neurologica, si possono utilizzare questi marcatori per identificare i soggetti in cui quel dato meccanismo è particolarmente alterato. Inoltre la misurazione delle variazioni di questi marcatori nel tempo può aiutare a capire se quel trattamento ha raggiunto l’effetto atteso. Questa visione innovativa avrà, sperabilmente, delle ripercussioni in futuro anche nella pratica clinica, migliorando sia la nostra possibilità di porre una diagnosi precoce, che di verificare con maggiore precisione ed oggettività la risposta alle terapie”.
Redazione Nurse Times
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