Nella toccante intervista rilasciata a Repubblica una 40enne, già madre di due bimbe, racconta il disagio di non poter disporre di spazi dedicati a chi interrompe la gravidanza.
Giulia ha quasi 40 anni e due bambine. Sembra una ragazzina anche lei. Una mattina di agosto sgrana gli enormi occhi scuri quando legge il risultato del test di gravidanza: è incinta. Non se lo aspettava, non era pronta, ma è successo, e ora è anche contenta. E lo è pure suo marito.
Ma la felicità dura poco, perché dopo alcune settimane la gravidanza si interrompe. E Giulia non sa ancora che abortire sarà un un inferno. Perché in ospedale sarà sistemata a poca distanza da donne che invece stanno partorendo. “Loro vanno incontro alla vita, chi sta abortendo alla morte. Non è sostenibile. Non è giusto. Troppo doloroso”, doce in un’intervista rilasciata a Repubblica.
Questa storia inizia nel settembre scorso, quando Giulia, che di lavoro fa il tecnico di neurofisiopatologia, capisce che qualcosa non va. Perdite, dolori. Si precipita all’ospedale Gemelli. In Pronto soccorso confermano: non c’è battito del feto. Ma le dicono che non serve raschiamento: “Signora, non si preoccupi, si risolverà in modo naturale, basterà qualche pasticca”. Giulia torna a casa, ma non si risolve nulla. Dopo 15 giorni si scatena una violenta emorragia. Corre di nuovo in ospedale. Il medico del Pronto soccorso le comunica che dovrà fare il raschiamento. “Altri medici del reparto, però, non erano d’accordo – racconta –. Ho protestato, ero arrabbiatissima, e in un lago di sangue”.
Alla fine, dopo le sue insistenze, decidono di procedere. È solo l’inizio di una notte terribile. Prima un’ostetrica le chiede senza troppi fronzoli se vuole i resti per un’eventuale sepoltura. “Una richiesta che mi ha spiazzato – dice abbassando lo sguardo –. Non ero pronta, non mi ero mai posta una domanda del genere”.
Poi le ore peggiori: “Mi hanno messo nella sala insieme alle mamme che partorivano. Io avevo abortito e a poca distanza da me c’erano donne che diventavano madri. Urlavano, le ostetriche gridavano ‘spingi’, i neonati piangevano. Nessuno mi ha chiesto come stavo. Nessuno mi ha sostenuto. Nessuno mi ha guardato in faccia. Per fortuna io avevo a casa le mie due figlie, Anna e Chiara. E la gravidanza era all’inizio. Ma come deve sentirsi una donna che abortisce a gravidanza avanzata, magari al quarto o al quinto mese, e che magari non sa se potrà avere altri figli?”.
Giulia ha avuto altri due aborti, qualche anno fa. E anche negli altri casi non era stato diverso: non è cambiato niente. Adesso ha bisogno di denunciare, perché si parli della dignità delle donne: “In quel momento il dolore della perdita è enorme. Inoltre ti senti sbagliata, ti sembra di non essere stata in grado di portare avanti la gravidanza, ti sembra che sia colpa tua e hai gli ormoni a tremila. E in tutto questo vedi accanto a te altre donne che diventano mamme. Loro hanno la vita tra le braccia, tu vai incontro alla morte. Mi sono sentita umiliata, vuota. E so che questa cosa succede anche in altri ospedali”.
E ancora: “Bisogna fare qualcosa, serve un posto dedicato. Magari con uno psicologo, una persona che ti sostenga, che si occupi di te in quei momenti drammatici, che non riuscirai mai a dimenticare e che hai disperatamente bisogno di elaborare. Oggi, invece, al centro c’è il medico, o il feto. Non certo la donna, che viene solo parcheggiata. Se l’aborto è naturale, al massimo ti dicono: ‘Pazienza’. Se l’interruzione è volontaria, ti guardano come una criminale. Siamo comunque sempre sbagliate. Bisogna parlare. Bisogna dirlo. È sulla nostra pelle che succede. La ferita ci resta addosso. Il tema dell’aborto, poi, oggi è attuale come non lo era da anni. E soprattutto ho due figlie femmine: non voglio che debbano subire quello che ho subito io”.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Repubblica
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