Il tema sul quale convergono le maggiori testate giornalistiche di interesse infermieristico, in questi ultimi mesi, è il demansionamento o deprofessionalizzazione.
L’analisi di questo fenomeno che si verifica in maniera del tutto singolare nella nostra professione, serve a destrutturare la pratica clinica quotidiana per erodere le certezze fin ora assunte in maniera inerziale.
Sottoporre a dubbio la prassi di oggi è utile per lasciarci alle spalle una cultura professionale inadeguata, ancora intrisa di valori missionaristici e per rompere l’immagine di angelo custode sempre pronto a prodigarsi supinamente a qualsiasi richiesta.
Colgo l’appello del prof. Cavicchi che in questa intervista (VEDI) suggerisce all’informazione infermieristica tutta di convergere su una linea editoriale che da un lato spezzi definitivamente col passato e dall’altro scriva il futuro tramite la condivisione di un’identità di ruolo.
Nel pieno di un processo di professionalizzazione ancora tutto in divenire, dobbiamo considerare il presente come un epoca di transizione in cui sarebbe auspicabile il massimo coordinamento tra gli organi di rappresentanza professionale per tracciare la rotta di un cambiamento inevitabile.
Occorre fermarsi a riflettere, colleghi, su cosa vogliamo essere nel prossimo futuro per mobilitare di conseguenza le giuste risorse.
L’infermiere del futuro, valorizzando l’intellettualità della propria professione, dovrà porsi come l’interprete di una disciplina, l’infermieristica, che, in piena evoluzione epistemologica, sta via via delineando il suo confine scientifico.
Per completare questa evoluzione, l’infermiere deve rifarsi ad un unico modello di riferimento per unificare il linguaggio intra-professionale e per definire univocamente cosa è l’assistenza infermieristica; altresì saprà rifarsi ad un’unica metodologia (c.d. processo di assistenza) per definire esattamente come si fa l’assistenza.
Dunque l’infermiere del futuro deve:
- adottare un comune linguaggio scientifico in tutto il territorio nazionale,
- pianificare l’assistenza sottesa ad un modello concettuale di riferimento unico,
- prescrivere interventi assistenziali di bassa complessità e discrezionalità e ad alta standardizzazione al personale di supporto,
- dedicarsi all’assistito e alla famiglia tout court con il suo patrimonio di conoscenze e competenze,
- valutare gli esiti del proprio operato,
- attivare un circuito per cui dalla clinica si generano dubbi da sottoporre alla ricerca, che alla clinica li restituisce, per mezzo di un efficace trasferimento didattico, sottoforma di nuove conoscenze.
Perciò in primis urge recuperare e rivalutare consapevolmente le basi normative, disciplinari e metodologiche del nostro campo di attività e responsabilità professionale per ricontestualizzare il nostro ruolo, desumendolo dai nuovi ed emergenti bisogni di salute dei cittadini nonché dal DM 739/94 e dalla L. 42/99.
Questo passaggio è da considerarsi un punto di partenza per livellare i bisogni formativi di una categoria ancora molto eterogenea da un punto di vista culturale e difforme nelle sue linee di condotta professionali; pena l’aumentare della forbice tra chi teorizza sull’assistenza e chi fa l’assistenza sul campo.
Il rischio è quello di costruire una cultura clinica avanzata in una generazione di infermieri sempre più specializzati, ma su basi normative, disciplinari e metodologiche fragili. Queste basi ai più possono sembrare già note, di fatti urge recuperare la dimensione del noto.
Il noto proprio perché è noto, ovvio, scontato, NON è conosciuto!
Solo avendo ferme queste premesse, possiamo combattere alla radice il demansionamento e discutere una nuova organizzazione del lavoro in cui mettere a disposizione ognuno il proprio patrimonio di competenze in un ottica di coevoluzione e di mutua valorizzazione delle professioni.
Occorre una nuova classe dirigente intermedia (coordinatori, posizioni organizzative e direttori infermieristici di presidio) capace di rinsaldare il legame tra teoria e prassi e che con la forza di una nuova cultura sappia essere il vettore di un cambiamento.
Questo è l’obiettivo al quale tendere per la ricostruzione di un’intera categoria, compatibilmente con la carenza non solo d’organico ma soprattutto di idee con cui ci scontriamo tutti i giorni.
Ci troviamo ad operare in un epoca di vacche magre perciò bisogna imparare dai contadini che alla carestia rispondevano con l’unica saggezza epica di cui disponevano: seminare.
Ricominciare a seminare per ricreare la speranza nel futuro.
Seminare trasversalmente una nuova cultura tra tutti gli organi di rappresentanza condividendo un progetto di emancipazione della professione tramite un programma di evoluzione politicoculturale a medio/lungo termine.
Una nuova cultura imperniata su concetti di centralità della persona assistita, approccio multidisciplinare, interdipendenza tra le professioni, promozione della salute (gli infermieri devono lavorare di più con le persone sane per non farle ammalare così da ridurre la domanda di assistenza) e territorio.
Attorno a questi valori, deve strutturarsi anche un progetto riformatore dell’ intero SSN che, ad oggi, in equilibrio precario tra vincoli economici e diritto alla salute, fa emergere il bisogno di nuovi assetti organizzativi per far fronte adeguatamente ai nuovi bisogni di salute della collettività.
Il futuro ci vuole pronti per divenire i veri protagonisti nel panorama sanitario del nostro paese, non possiamo farci trovare impreparati.
Un altro futuro è possibile solo se lo pensiamo e se lo vogliamo davvero!
Per costruire un identità di ruolo, per riappropriarsi di una dignità e di una immagine professionale consona ad una categoria intellettuale, evidentemente serve un cambiamento.
Ma attenzione!
Serve prima di tutto un cambiamento interno ad ognuno di noi poiché i primi avversari siamo noi stessi: disillusi, disuniti, abituati a subire, a delegare, incapaci di interessarci alla politica della nostra professione.
Se riusciamo ad abbattere questo muro di menefreghismo e pessimismo, avremo la strada spianata!
Raffaele Varvara
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