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Leucemia linfoblastica acuta negli adulti: si può curare senza chemio?

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Leucemia linfoblastica acuta negli adulti: si può curare senza chemio?
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Uno studio promosso dalla Fondazione GIMEMA apre nuovi scenari.

La leucemia linfoblastica acuta è un tumore che coinvolge il sangue e il midollo osseo, il tessuto che si trova all’interno delle ossa, da cui hanno origine le cellule del sangue periferico: progredisce spesso rapidamente e se non viene trattata può portare al decesso nel giro di giorni o settimane. È il tipo di cancro più frequente in età pediatrica, colpisce soprattutto fra 3 e i 5 anni, e sono 350-400 i nuovi casi individuati ogni anno nel nostro Paese.

Sebbene negli adulti sia più rara, le diagnosi annue in Italia si aggirano attorno a 300. Ora un gruppo di ricerca tutto italiano ha dimostrato che una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia può fronteggiare con successo il tipo più frequente di leucemia acuta linfoblastica degli adulti, evitando la chemioterapia e i suoi pesanti effetti collaterali. I risultati dello studio, promosso dalla Fondazione GIMEMA, sono stati pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine a fine ottobre 2020.

L’idea del progetto ha avuto inizio circa 15 anni fa e oggi i risultati della terapia “chemio-free”, sperimentata in un campione di pazienti adulti affetti da leucemia acuta linfoblastica con una alterazione del cromosoma Philadelphia (Ph+), confermano il successo del protocollo clinico messo a punto da un gruppo di ricerca tutto italiano: il 98% dei pazienti raggiunge la remissione ematologica completa, ovvero non presenta più tracce di malattia e il 60% mostra quella che gli esperti chiamano “risposta molecolare”.

Inoltre, dopo un anno e mezzo dall’inizio del trattamento, la sopravvivenza generale è pari al 95% e quella senza la malattia arriva all’88%. A questi risultati si è giunti senza ricorrere alla chemioterapia sistemica che porta con sé effetti collaterali molto pesanti, ma puntando su una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia.

«Questo studio è la consacrazione di un’idea e giunge alla fine di un lungo percorso nel quale abbiamo cercato di eliminare la chemioterapia nelle fasi iniziali dal trattamento di questa forma speciale di leucemia», commenta Robin Foà, professore di Ematologia all’Università Sapienza di Roma, primo autore del lavoro sostenuto anche da Fondazione AIRC e con il contributo di Amgen.

Sempre molto temuta dai malati per le sue conseguenze indesiderate, la chemioterapia resta oggi un’arma insostituibile per trattare molti tipi di cancro, ma molti sforzi della ricerca vanno nella direzione di trovare nuove differenti cure, che possano essere ugualmente o più efficaci e allo stesso tempo meno tossiche.

Nello studio, condotto dai centri di ematologia che afferiscono al Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto (GIMEMA) con il coordinamento di Foà, sono stati coinvolti 63 pazienti con leucemia linfoblastica acuta Ph+ (Philadelphia positiva) di età superiore a 18 anni e senza limite inclusivo di età (il più anziano aveva 82 anni), sottoposti a una prima fase di trattamento (induzione) con l’inibitore tirosin chinasico dasatinib, seguito da una seconda fase (consolidamento) con l’anticorpo monoclonale bispecifico blinatumomab, quindi una terapia di induzione e consolidamento senza chemioterapia. Già dopo la prima fase di induzione, 3 pazienti su 10 mostravano una risposta molecolare e i numeri sono raddoppiati (6 pazienti su 10) dopo i due cicli di blinatumomab previsti nello studio, fino ad arrivare a 8 su 10 se i cicli di anticorpo aumentavano.

«Con questo trattamento riusciamo a stimolare il sistema immunitario che si attiva contro il tumore e gli effetti collaterali del trattamento sono limitati – aggiunge l’esperto –. Inoltre molta parte della terapia si effettua a domicilio con riduzione quindi dei giorni di ricovero. E un altro dato molto incoraggiante è quello relativo ai pazienti successivamente sottoposti a trapianto allogenico: la mortalità associata al trapianto è risultata molto bassa  (il 4,1%) probabilmente perché i pazienti non avevano alle spalle la tossicità del trattamento chemioterapico e sono riusciti a sopportare meglio il trapianto».

Questi risultati potrebbero cambiare profondamente la pratica clinica nel trattamento di quello che rappresenta il sottogruppo più frequente di leucemia linfoblastica dell’adulto, la cui incidenza incrementa progressivamente con l’avanzare dell’età, e che prima dell’avvento degli inibitori delle tirosin chinasi aveva una prognosi decisamente nefasta.

«Va anche sottolineato – conclude Foà – l’impatto di questa strategia terapeutica sulla qualità di vita dei pazienti dovuto ai limitati effetti collaterali e alla ridotta ospedalizzazione. Questo è stato di particolare rilievo durante il picco primaverile della pandemia di Covid-19. L’induzione e il consolidamento con dasatinib e blinatumomab durano in tutto circa 6 mesi e poter eseguire gran parte del trattamento a domicilio ha permesso di non interrompere né ritardare la terapia prevista».

Redazione Nurse Times

Fonte: Corriere della Sera

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