Nel precedente articolo dal titolo “Lavorare a Roma come libero professionista…la denuncia di Alessio Biondino” (VEDI), vengono ripercorse alcune esperienze negative abbastanza comuni a tantissimi infermieri colpite da una crisi occupazionale senza precedenti. La speranza di trovare un lavoro dignitoso premia la tenacia di Alessio.
Finalmente…un lavoro dignitoso!
…a cura di Alessio Biondino
Nei giorni seguenti consegnai il Curriculum ad un’azienda che si occupa di assistenza domiciliare a pazienti tracheostomizzati e ventilati, appaltata con le ASL. Ci lavorava mia sorella (infermiera anche lei) e cercavano personale. Anche loro mi fecero un colloquio subito, durante la consegna del CV. Mi chiesero di aprire la partita iva “come fanno tutti” (a loro dire), ma rifiutai. Così mi proposero un contratto “co.co.co” per collaborare insieme. Accettai, visto che al momento non avevo altre prospettive all’orizzonte.
Dopo un periodo di affiancamento presso alcuni pazienti fui inserito in un nuovo caso, ovvero presso una paziente appena dimessa dall’ospedale a domicilio. Dopo un mese che la assistevo mi fu offerto un contratto stabile (CCNL del Terziario). Incredulo ed entusiasta, visto che non si sentiva parlare di contratti stabili in tutta la regione, accettai.
La signora che assistevo era molto particolare… Una forza della natura. Nonostante la sua gravissima malattia: la SLA. La relazione d’aiuto che abbiamo costruito insieme ha ispirato la stesura del mio romanzo “Buonanotte, madame” (VEDI) (pubblicato da Zerounoundici Edizioni ad ottobre 2014).
Il Demansionamento
Dopo di lei ebbi altri pazienti e mi accorsi di quanto l’assistenza domiciliare sia in realtà un mondo totalmente fuori controllo: nessun protocollo reale da seguire, nessun controllo sulla reale qualità assistenziale, demansionamento puro e aberrante per i professionisti.
Ho visto colleghi infermieri andare a fare la spesa, stirare, lavare i piatti e pulire i pavimenti. Ho visto badanti aspirare trachee e cuffiare cannule tracheostomiche. Ho visto la totale assenza di DPI, di tutela degli operatori contro danni muscolo-scheletrici, ho visto sperequazioni sulla distribuzione di risorse e materiali.
Ho visto infezioni e morti evitabili. Tutto ciò, dopo tre anni, mi ha portato a decidere di fare nuove esperienze. Volevo un reparto. A tutti i costi. Volevo crescere.
Per aiutare le famiglie e i professionisti che assistono a domicilio pazienti complessi, feci una serrata ricerca bibliografica e scrissi insieme ad una collega (che poi sarebbe diventata mia moglie) un manuale dal titolo: “Assistenza respiratoria domiciliare – Il paziente adulto tracheostomizzato in ventilazione meccanica a lungo termine” (Ed. Universitalia, 2013).
Il passaggio ad una clinica privata…in partita IVA
Nel 2013 sono stato finalmente contattato da una clinica privata. Avvenne tramite una persona conosciuta per caso, che mi chiese il Curriculum per un’altra realtà. L’azienda aveva già ricevuto mie candidature nei mesi precedenti, ma fino a quel momento ero stato ignorato. Si parlava di aprire partita IVA, di entrare in un’associazione e di fatturare 17 euro l’ora.
17?! Questa cosa mi ingolosì parecchio, visto che a Roma nessuno pagava così!!
La tariffa delle cooperative si aggirava di poco intorno ai 9-10 euro lordi l’ora; solo la domiciliare ad alta intensità pagava di più (13-15 euro). 17 era un’opportunità. Nonostante le mie perplessità verso la libera professione (ma un infermiere che effettua turni di lavoro, può essere un “libero” professionista?! Ma siamo proprio sicuri?! Perché nessuno controlla nessuno?!) e verso le associazioni, decisi di tuffarmi in questa nuova esperienza.
Si trattava di un reparto di medicina. Ci lavorai per un anno. E fu un incubo: era una continua corsa contro il tempo, che non bastava mai. Le cose da fare erano tantissime, la burocrazia infinita, i pazienti troppi rispetto agli infermieri in turno e tutti molto problematici.
E poi… Gli infermieri rispondevano anche ai campanelli (in medicina lo scampanellio è continuo), effettuavano l’infinito giro letti mattutino, dovevano pensare anche a distribuire i pasti e capitava anche di dover sanificare le postazioni letto. Ricorderò tutta la vita le notti in quel reparto. Si iniziava a correre alle 21 e non si terminava fino alle 7. Mai un momento di tregua. E se per qualche motivo (e capitava spesso) non riuscivi a finire il tuo lavoro entro il tuo orario, dovevi trattenerti per concludere il tuo operato (senza retribuzione) in modo da non complicare il lavoro dei colleghi del turno successivo. In pratica sapevi quando entravi… Ma non sapevi quando ne saresti uscito.
Ribellarsi era un inutile rischio, vista l’interminabile coda di professionisti ad attendere un posto di lavoro libero. Bisognava correre. A proprio rischio e pericolo. Bisognava rispondere ai campanelli di corsa. Anche se si stava preparando la terapia, anche se si stava predisponendo una trasfusione. Per i pazienti, per il mio modo di concepire la cura e l’assistenza, era un lager. Dopo aver rischiato di rimetterci in salute, per non compromettere il mio equilibrio emotivo e psico/fisico, iniziai la ricerca di un altro posto di lavoro.
Segue…
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