Riportiamo un’interessante intervista realizzata dalla testata BergamoNews.it.
Quarant’anni fa fu approvata la legge numero 180, comunemente conosciuta come Legge Basaglia, che decretò il divieto di ammettere nuovi pazienti nei manicomi e che quindi comportò, gradualmente, la loro chiusura. Una legge apprezzata, ma anche osteggiata da chi vuole, ancora oggi, rendere ogni cosa una questione politica, compresa una rivoluzione in campo medico, sociologico, giuridico e umano.
Sembra di parlare di mondi lontani quando si affronta il tema dei manicomi e, inconsapevolmente, la nostra mente viaggia nel tempo alla ricerca di immagini dai contorni in bianco e nero, incorniciate da occhi tristi, camicie di forza, catene, finestre con pesanti ringhiere e scene alla Psyco. Di certo le numerose trasposizioni cinematografiche e letterarie hanno aiutato a costruire un immaginario dai tratti gotici e romantici.
Ma la vita, quella vera, quella della malattia, della solitudine vissuta in una realtà lasciata ai margini, com’era, veramente? Sono numerose le cartelle cliniche che sono sopravvissute alla chiusura dell’Ospedale di Neuropsichiatria di Bergamo (ONP), ma tra carte consumate, fotografie sgualcite e diagnosi dalla difficile grafia, si riesce a comprendere poco la quotidianità di quelli che il mondo definiva “matti”.
Simonetta Rovaris, responsabile delle professioni sanitarie del dipartimento di Salute mentale dell’Ospedale di Bergamo, c’era. Lei, in quella storia, c’era dentro completamente, avendo ricoperto il ruolo di caposala del reparto di Handicap psico-organico dell’ONP dal 1991 al 1993.
“Avevo 25 anni quando ho iniziato a lavorare all’ex manicomio di Bergamo – racconta la dottoressa Rovaris –. Le mie colleghe dell’ATS (ex USSL) mi dicevano che ero io la matta ad accettare questo incarico. Ma ero giovane, mi affascinava la psichiatria ed ero colma di una passione che, purtroppo, non riesco più a ritrovare nei ragazzi che vogliono intraprendere questa carriera. Sono stati anni difficili, ma è la passione che mi ha fatto andare avanti. Vivere l’ONP è qualcosa di grande impatto e quella esperienza ha contrassegnato tutta la mia carriera professionale, ma in termini positivi. Perché quando uno si trova a vivere un’esperienza forte come quella dell’ospedale psichiatrico, alla fine sei segnato per tutta la vita, sia in termini di relazioni con i pazienti che con il personale medico. È stata una battaglia, ma mi ha formata, mi ha fatto crescere e mi sento fortunata ad averlo fatto. È un lavoro che ti porti a casa e con lui tutte le domande, le perplessità e le paure attorno a quello che fai”.
Il 2018 non è solo l’anniversario della Legge Basaglia, lo è anche dell’ufficiale chiusura del manicomio di Bergamo: Sebbene la legge 180 sia stata approvata nel 1978, ci sono voluti 20 anni per attuarla, e così l’ONP bergamasco è stato chiuso (solo) nel 1998.
“Io sono stata una delle prime infermiere a essere assunta al centro psico-sociale, quindi nell’area ambulatoriale nata subito dopo la 180. Sono stata assegnata al reparto dell’Handicap psico-organico, di quei pazienti, cioè, in cui c’era una componente psichiatrica e una componente organica. Erano comunemente chiamati i ‘sudici’. Portavano con sé questa denominazione perché erano per lo più pazienti sporchi, che sporcavano, pazienti coprofagi, che avevano comportamenti difficili da gestire, vedere e accettare. Avevo solo 25 anni e non è stato facile far accettare il mio ruolo di caposala a infermieri e infermiere che avevano il doppio dei miei anni e della mia esperienza e che portavano dentro di sé tutto il logorio che comporta lavorare con pazienti di quel tipo”.
Anche lei ha vissuto quel logorio?
“Io non ho fatto in tempo a sentirlo perché ci sono stata solo due anni, un tempo limitato. Ma ho dentro di me ricordi nitidissimi che non scorderò mai: mi ricordo gli odori. È qualcosa che porto ancora dentro di me, come se fosse una cosa che mi si è appiccata addosso, la stessa sensazione che sentivo allora: di un odore che portavo con me, su tutta me stessa. Era un ambiente molto pesante da vivere, una situazione di degrado e di igiene davvero da terzo mondo. Mi ricordo che camminavamo tutto il giorno nella pipì perché non venivano ancora usati i materiali monouso come pannoloni e traverse. Tutto questo nella periferia della nostra città, solo 20 anni fa! Con il tempo, però, siamo riusciti a cambiare le cose, introducendo i materiali monouso e abbigliamenti adeguati. Allora non esistevano i camici per i pazienti e il loro vestiario consisteva in abiti donati dai cittadini”.
Continua la dottoressa Rovaris: “Era una realtà chiusa e nascosta a tutti, era come una cittadella nella città di Bergamo. Si faceva tutto all’interno di quelle mura, in autonomia rispetto alla città e al di fuori di quella realtà dimenticata. Lì si svolgeva la vita di centinaia di persone. La loro giornata era all’interno di una stanza molto grande e i pazienti passavano il loro tempo accanto a un tavolo perché era l’unico arredo presente nella stanza, dal momento che le sedie potevano essere un pericolo. E di notte venivano chiusi nelle loro stanze”.
Quale storia l’ha colpita di più?
“Sono tante, come sono state tante le persone a cui mi sono legata. Ogni volto incontrato, ogni caso clinico studiato l’ho fatto mio, l’ho protetto dalla distruzione della struttura e lo porto nel mio cuore. Quando hanno stracciato alcune delle cartelle cliniche era come se mi stessero strappando i vestiti di dosso. Ho conosciuto pazienti che erano lì da quando avevano otto anni. Riuscite a immaginarlo? Condurre una vita sempre in manicomio, senza conoscere cosa c’è all’esterno. E questo solo perché avevano un lieve ritardo mentale, che poi ovviamente è diventato grave per assenza di stimoli. Così come gli epilettici, che erano lì solo perché nell’anamnesi avevano avuto alcuni episodi di epilessia. E poi i pazienti coprofagi, difficili da dimenticare”.
Ha mai avuto paura?
“In quegli anni neanche un po’, mi sentivo in una botte di ferro. Dopo, nel corso della mia carriera, sì, soprattutto adesso, quando ho a che fare con pazienti tossicodipendenti. Negli anni in cui ho lavorato io in reparto non era così sentito il problema della dipendenza correlata al disturbo psichiatrico. A volte ho paura perché un comportamento di un matto mi sento di poterlo gestire, invece di uno che ha fatto uso di sostanze no: è imprevedibile ed è molto più difficile da gestire e, purtroppo, è in grande crescita”.
E adesso, dal punto di vista strutturale e giuridico, la situazione è migliore?
“Sì, ma è ancora troppo poco. Stiamo facendo molto, certo, e dal punto di vista farmacologico è cambiato tutto. Dal punto di vista strutturale abbiamo qualcosa, ma non è sufficiente, come dal punto di vista professionale. Il personale infermieristico non è qualitativamente preparato come allora, manca la formazione che c’era ai tempi: adesso è scarsa e superficiale. Chiunque lavorasse all’ONP faceva un corso di psichiatria. Tutti gli operatori dovevano farlo, dal fabbro all’idraulico, proprio perché i pazienti stavano sia dentro che fuori il reparto. Noi, invece, rischiamo di avere una generazione infermieristica non preparata adeguatamente. Forse dipende anche dalle scelte: se noi iniziavamo a lavorare in psichiatria e non ci piaceva, potevamo cambiare; adesso i giovani non hanno più la varietà di scelte che avevamo noi, e così accettano di venire solo per avere un posto. Ma dove è la passione?”.
Tratto da: www.bergamonews.it
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