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La storia di Gigi che amava l’Italia senza averla mai vista

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Introduzione di Giuseppe Papagni

Questa che vi presentiamo è la storia di Gigi, una delle tante persone che noi infermieri incontriamo durante il nostro percorso professionale, ma che con prepotenza rimangono dentro di noi, perchè ci lasciano un segno indelebile. Un importante vissuto professionale di un nostro collega raccontato nei minimi dettagli, con grande passione, un ricordo vivo trasmesso con semplicità e autenticità…quando l’ho letto la prima volta mi sono convinto ancor di più di avere scelto una professione che ti dà tanto dal punto di vista emotivo, che ci scolpisce dentro….nella nostra rubrica “Storie di infermieri” vi presentiamo:

La storia di Gigi raccontata da Francesco Falli

Falli

Verso il 1990 mi ritrovai al Cairo, componente di un team sanitario italiano destinato allo sviluppo delle relazioni italo- egiziane in più settori, quello della sanità incluso. Erano certamente anni e tempi diversi da quelli contemporanei, ed il clima sociale al Cairo era molto sereno; si vedevano anche ragazze vestite all’occidentale, magari mano a mano con amiche velate.

Il nostro progetto, inserito nelle attività del Dipartimento per la Cooperazione Internazionale allo sviluppo, riguardava la rianimazione e la dialisi dell’ospedale italiano del Cairo, ad Abassya (quartiere della sterminata metropoli africana).

Quando arrivai, in un caldissimo settembre, i colleghi già presenti mi fecero da tutor per qualche giorno e subito mi presentarono un anziano signore, da tutti quanti, arabi ed italiani, chiamato ”Gigi il fascista”.
Mi dissero che, per qualunque genere di manutenzione sulle nostre apparecchiature, lui avrebbe trovato una soluzione: naturalmente, non quella canonica, classica, che avremmo trovato, per esempio, nella rianimazione spezzina. Ma in ogni caso, il problema sarebbe stato risolto da Gigi.

Io mi presentai un po’ titubante, e questo signore ormai molto anziano mi chiese subito da quale città io arrivassi: appena io pronunciai ”…la Spezia”….lui mi disse, con acceso entusiasmo: ”ma certo, una gran bella città, e di certo saprai dove si trova in Viale San Bartolomeo la caserma che fu della Decima MAS!…”
Io, convinto di trovarmi di fronte a un esperto della mia città, risposi che sì, conoscevo benissimo il viale, e un poco lo delusi perché meno certezze avevo sulla caserma!…e gli chiesi quando era stato l’ultima volta a Spezia, felice di parlare della mia città che, da bravo spezzino in trasferta, mi mancava già molto.
Gigi mi guardò, con un cenno di malinconia, e mi disse più o meno così: ”….io sono Gigi Dandolo, nipote di veneziani, figlio di italiani d’Egitto, e a mia volta italiano d’Egitto. Sono italiano di passaporto, storia, anima: ma in tutta la mia vita, non sono mai stato in Italia.”
Poi proseguì tornando a parlare di Spezia, del fatto che era stata una città militarmente molto importante, che per questo aveva subìto più bombardamenti devastanti durante la guerra; e che aveva conosciuto personaggi importanti legati alla nostra città ….Gigi aveva questa conoscenza di tantissime parti dell’Italia, pur – appunto- senza aver mai lasciato il Nordafrica.
Ancora su Spezia, era perfino a conoscenza dello scudetto di guerra ottenuto, mi disse …”battendo la più forte squadra mai esistita, il Torino di Valentino Mazzola”.
Rimasi molto colpito, e ogni giorno, nei due anni della mia missione, ascoltai da Gigi cose incredibili, e appresi come si poteva amare il proprio Paese….senza esserci mai stato.

Gigi, che era soprannominato ”fascista” per le sue costanti battute storiche ambientate nel Ventennio, era nato in Tripolitania, in Libia, pochi mesi dopo la prima conquista italiana del 1911, da italiani che al Cairo avevano delle attività commerciali nel settore dei tessuti.
Commercianti benestanti di origine veneziana, si erano poi stabiliti al Cairo definitivamente, senza mai rientrare in Italia. Il 10 giugno del 1940 Gigi, saputa della dichiarazione di guerra appena consegnata dal Duce agli Ambasciatori di Francia e Gran Bretagna, si recò presso la sede del Fascio del Cairo e ascoltò il suo Federale, impegnato in un vibrante discorso bellico. Egli concluse raccomandando ai presenti la calma, e disse di attenderlo, perché era ora importante indossare la divisa militare: che lo attendessero in sede, disse a Gigi e agli altri italiani presenti mentre imboccava, in fretta, l’uscita.
Non tornò mai più; mentre da lì a poco entrarono numerosi soldati inglesi (l’Egitto del 1940, formalmente indipendente, era di fatto un protettorato britannico) che impacchettarono (come amava dire Gigi) tutti gli italiani presenti e li portarono nel deserto, nei campi di internamento dei cittadini dei paesi nemici.
Giuridicamente, a Gigi e ai nostri connazionali toccò la qualifica di ”very dangerous person” e la detenzione durò per anni, mentre il sovrapporsi del caos giuridico, mi raccontò Gigi, creava tanti problemi.
Infatti, l’Egitto non era in guerra con l’Italia, ma gli inglesi non avevano nessuna intenzione di fare sconti a questi italiani. E poiché erano civili, non si applicavano le indicazioni della convenzione di Ginevra.
Ufficiali egiziani gestivano con amichevole compassione i campi, ma i giri di vite imposti dagli inglesi colpivano comunque i nostri connazionali.

Gigi vendette le sigarette che, in misura di un pacchetto a settimana erano concesse dagli inglesi, per mangiare un po’ meglio, fino al giorno in cui arrivò la notizia dell’Armistizio, nel Settembre del 1943.
Esattamente come in Italia e nel resto del mondo, nonostante gli intendimenti e le illusioni di Badoglio e del Re, gli ex nemici non avevano ovviamente nessuna intenzione, e tantomeno il dovere, di considerare tre anni di guerra come un dettaglio da dimenticare.
Quindi, Gigi restò nei campi, ma – mi disse- la situazione progressivamente migliorò, fino al permesso di essere raggiunti, una domenica, dalle famiglie che non vedevano da tanto tempo.
Ma ecco che, la notte del sabato ”…un cretino di commerciante tenta la fuga dal campo! L’han preso, e così hanno annullato la visita delle mogli. Disgraziato!…perchè lui era scapolo, e stufo di pagare la tassa sul celibato! L’ha fatto apposta, questo imboscato!… hai capito!!”

Questo colloquio fra me e Gigi avvenne in una delle due occasioni nelle quali andammo, insieme a molti altri connazionali, ad El Alamein, a vedere i sacrari dei Caduti di tutte le Nazioni. Una emozione enorme, sterminate distese di tombe, molte persone affrante e una atmosfera davvero particolare.
E in quel contesto, Gigi ostinatamente si rifiutava, dopo oltre 40 anni, di stringere la mano al protagonista della fuga mancata, anche lui presente al rituale pellegrinaggio….la foto, che purtroppo non è perfetta, ci ritrae proprio lì, nel Sacrario Italiano di El Alamein con un ufficiale dei Bersaglieri, giunto a testimoniare il ricordo delle Forze Armate.

Quando Gigi rientrò al Cairo, finalmente liberato dal campo nel deserto, la sua attività commerciale subì contraccolpi e si ritrovò infine anziano, e solo, senza familiari e senza contatti se non col piccolo mondo dell’ospedale italiano, dove viveva e ”lavorava”.
Gigi parlava un numero imprecisato di lingue. Italiano, francese, inglese, tedesco, arabo egiziano, dialetti arabi; il persiano….aveva una piccola pensione italiana di sopravvivenza, che lasciava alle suore che gestivano la struttura sanitaria, in cambio di un piccolo locale nel quale accumulava i suoi ricordi e la sua solitudine.

Per dire ”chiudi la porta dell’ascensore” in genere diceva ”chiudi il beb dell’elevator”, mescolando in poche parole italiano, arabo, francese: era un mito per noi, e naturalmente svolgeva anche l’incarico di interprete, soprattutto all’inizio della missione di ogni singolo inviato al Cairo.
Sbrigava inoltre per noi italiani le necessità burocratiche, infilandosi negli uffici della allucinante amministrazione cairota, sollevandoci da giornate di coda e attesa (in questi luoghi i cairoti si portavano, per dare una idea della cosa, sia il cibo del giorno, sia i panni da stirare; questi venivano pressati da donne appositamente presenti con ferro ed asse da stiro nelle scale e nei corridoi dei palazzi governativi che, con pochi centesimi, permettevano così di prendere due piccioni con una fava).
E soprattutto, in un momento storico nel quale sembrava ”superato” ricordare certi trascorsi, ogni data aveva per lui un significato, e si stupiva molto del fatto che noi, italiani ”di madrepatria”, come diceva lui, non ci ricordassimo se non di sfuggita che il 4 novembre era l’Anniversario della Vittoria, o che il 2 giugno andava festeggiata la Repubblica…

Quando sono partito, a fine missione, dopo quasi due anni di contatti quotidiani (ferie escluse, che facevo in genere…a casa) il saluto è stato naturalmente commovente, perché era ovvio che non ci saremmo più rivisti.
Avevo con me tutti i miei bagagli: lui volle ancora regalarmi delle piccole cose sue, fra quel poco che possedeva, che accettai, consapevole che per lui era importante affidarmi quei ricordi: compresa proprio questa foto.
Quindi mi strinse la mano, assunse un aspetto marziale e mi disse di salutargli la sua Patria.
Poi, molto meno formale, stringendo forte la mia mano con la sua, mi disse con un soffio di fiato: ”…non ti dimenticare di me, per favore…”
Come vedi, caro Gigi, non l’ho fatto fino ad oggi; e non lo farò mai. Ciao.

Fonte: gazzettadellaspezia.it

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