Tanti medici, infermieri e oss si sono mobilizzati oggi nel corso delle operazioni di salvataggio delle vittime del crollo del Ponte Morandi di Genova.
Riportiamo di seguito la testimonianza di M. M., chirurgo ortopedico dell’ospedale Galliera.
Magone e occhi lucidi. La voglia di piangere senza sapere nemmeno bene per quale delle molte ragioni.
La tragedia in sé. Le storie che si intrecciano di chi non ce l’ha fatta. Il vuoto del pronto soccorso in attesa dei feriti gravi. Che non arrivano.
Perché sono tutti morti. Ecco. Questo ultimo punto forse è quello, per chi fa il mio lavoro, che stringe più di tutto la gola. Essere lì, con altri cento tra medici, infermieri, oss.
Primari, direttori sanitari, tutti i caposala dell’ospedale. I ferristi, i tecnici di radiologia, pure gli elettricisti. Quando la voce del direttore sanitario annuncia all’interfono l’emergenza e il precetto del personale, è quasi più un atto formale che un vero ordine.
Nessuno è andato a casa. L’ospedale è il suo personale sono lì, schierati. A prescindere. Perché tutti ci crediamo. Crediamo nel nostro lavoro, crediamo e speriamo che ci sarà tanto da lavorare.
Ognuno fa qualcosa, propone idee, libera posti letto e attiva sale operatorie. Ci guardiamo, seri, senza tanta voglia di parole. E altri dipendenti che arrivano, chiamano, corrono da casa e dalle ferie per aiutare.
Questo è stato oggi il Galliera di Genova.
Arriva la prima ambulanza, sopra di noi sentiamo gli elicotteri. Ed ecco che, di colpo, la notizia diventa realtà con il primo ferito, davvero grave. La notizia si trasforma in un qualcosa di reale che tocchi, visiti.
E poi altre squadre pronte, sempre con gli occhi sbarrati e altri silenzi. E il silenzio che fa più male di tutti. Quello delle ambulanze che non arrivano. Il silenzio dei morti.
Ho finito da poco la sala operatoria. Eravamo in tanti tra medici, anestesisti, infermieri, tecnici radiologi. Per quel paziente. Per attaccarci alla vita, alla speranza. Forse al sapere che qualcosa abbiamo fatto. E che volevamo fare tutti di più.
Io ve lo giuro: vorrei operare fino a domani, sapere che due piani sotto di me il pronto soccorso ribolle di feriti più o meno gravi da accudire e visitare. E invece niente. Continuo a sentire solo questo cacchio di silenzio che mi stringe la gola.
Il silenzio della morte.
Eppure dico grazie al mio ospedale. A tutti i colleghi in senso lato, dal direttore sanitario a quell’elettricista lì con i guanti pronto a portare barelle. Mi sono sentito parte di una famiglia. Grazie a tutti, amici miei. Davvero.
Ogni professionista intervenuto oggi avrebbe voluto fare più di quanto non sia riuscito a fare, nel tentativo di salvare più persone possibili coinvolte in questa immane tragedia. Ma questo altissimo ponte, ha restituito purtroppo quasi solo cadaveri.
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