Riceviamo e pubblichiamo il commento di un lettore alla nota vicenda della Fondazione napoletana.
Avevo appena finito, in un centro della mia zona, il ciclo delle chemio e delle radio. Era arrivato il momento di decidere dove operarmi. Chiara la diagnosi: adenoca localmente avanzato del retto e infiltrante la prostata. Naturale chiederselo, ma soprattutto chiederlo. Un po’ a tutti. Si aprì la hit parade dei suggerimenti. In testa, senza timore alcuno di perdere il primato, c’era Milano. Quasi tutti concordi. Non fosse altro perché lì, dicevano, in generale tutto funziona a meraviglia.
Poi decisi di limitare un po’ la platea del sondaggio, restringendo il campione dei miei “exit-poll” a chi, non sempre riconoscendo la “superiorità” del Nord in tutto ciò che è sinonimo di efficienza, in un modo o nell’altro avesse potuto darmi un parere più diretto, sia per esperienze vissute che per competenza specifica. E fu allora che la capitale lombarda cominciò a perdere colpi. «Nicola, scegli tu perché è giusto che sia tu a esserne convinto. Però, prima di decidere, non puoi assolutamente non consultare una “eccellenza” che si chiama Fondazione Pascale».
Non potrò mai dimenticare ciò che mi disse un mio fraterno amico, stimatissimo chirurgo, che non vedevo da molto tempo. Quelle parole, dette con tono molto determinato, mi provocarono un qualcosa che non riuscii a descrivere neanche a me stesso. Una sensazione sconosciuta mi assalì all’improvviso. Quasi un bagliore. Non so. Non sono mai stato in grado di spiegarlo. Pensai che il mio amico fosse un mago dotato di poteri strabilianti. Il suo suggerimento mi attraversò il corpo, donandomi una luce che pensavo non potesse più esistere.
Da lì cominciò a delinearsi la mia visione dell’orizzonte, il mio futuro, lo spettacolo della mia speranza. Senza ancora aver verificato nulla (per quanto io ne fossi stato realmente all’altezza), avevo già preso la mia decisione. Le ore successive le passai a documentarmi, con tutti i mezzi a disposizione, sui nomi e sulle preziosità di cui mi aveva riferito il mio amico. Non per decidere, perché ormai già lo avevo fatto, ma semplicemente per il piacere di leggere, vedere, ascoltare, approfondire quanto il mio amico mi aveva, senza neanche troppi sforzi, già raccontato.
Furono necessari solo pochi giorni per avere un appuntamento al terzo piano del Pascale. Il colloquio che ebbi col dottor Paolo Delrio rappresentò, e lo è ancora oggi, uno dei momenti più importanti della mia vita. Mi fu spiegato tutto; tutto ciò che sarebbe stato, tutte le fasi dell’intervento, tutti i più scrupolosi dettagli, con una attenzione, una precisione e una chiarezza tale che a un certo punto mi dimenticai di essere malato di cancro e mi ritrovai più forte e fiducioso di quanto mai lo fossi stato prima, quando ero una persona sana. Ogni sua parola, ogni sua informazione era una fotografia che si proiettava con gli occhi della mia mente. Nessuna sfocata. Tutte a definizione ottimale. Un capolavoro assoluto di comunicazione.
4 giugno 2013. Era un martedì. Il giorno dell’intervento. In sala operatoria, pochi attimi prima di addormentarmi, mi ricordo che i medici dell’equipe del dottor Delrio, tutti pronti e sorridenti, così mi dissero, invitandomi ad alzare leggermente lo sguardo: «Nicola, ti presentiamo il nostro amico robot!». Al risveglio, mi ritrovai attorniato dagli stessi sorrisi che mi avevano salutato prima dell’avvincente viaggio. Sorridevo anch’io. Ero contento, mi sentivo benissimo. Il giorno dopo mi spiegarono quello che il giorno prima, subito dopo l’intervento, era stato spiegato minuziosamente ai miei familiari. Ero stato operato con un “intervento chirurgico di RAR ultrabassa intersfinterica robotica con prostatectomia radicale robotica en-bloc”.
Per la prima volta, mi fu detto, l’“amico robot” aveva lavorato su due organi: un grande amico, un amico che mi ha salvato la vita arricchendola di quel desiderio di viverla che forse mai avevo conosciuto prima. Da quel giorno l’Istituto Pascale, di Napoli, è diventato la stella più luminosa del mio universo di speranza. Follow-up: è questa l’essenza del mio sentirmi sicuro. L’eccellenza del Pascale, di cui mi parlò il mio amico chirurgo, la tocco con mano, la respiro in ogni attimo del percorso in cui sto camminando, con quella gioia che soltanto chi la vive può capire.
Ne ho conosciuto tantissime di persone che, come me, sono orgogliose di questa eccellenza che ti assiste, ti parla, ti sorride, ti consiglia, ti segue, ti risponde, ti stringe la mano, ti informa sui grandissimi progressi della ricerca che si materializzano al Pascale. Da ex malato di cancro, pur sapendo benissimo di “stare sotto il cielo”, ho provato amarezza indescrivibile nel leggere che un’eccellenza del Pascale ha scelto altri lidi per farsi curare. Io non sono nessuno, non ho il diritto di commentare, rispetto chiunque inchinandomi al suo cospetto, ma non sarei me stesso, non sarei quell’incrollabile estimatore del Pascale, dove alloggiano tutte le mie certezze, se non dicessi che mi sento quasi tradito.
Da ex malato di cancro (che vive comunque sempre “sotto il cielo”) a cui il “robot” del Pascale ha salvato la vita, resto esterrefatto alla notizia che anche i “robot” hanno una loro hit parade… geografica. E se proprio è così, be’… non mi ci vuole molto per esprimere la mia preferenza. Io mi curo al Sud. Posso ben dirlo alla luce della mia grandissima (sì, esattamente grandissima!) esperienza di malato di cancro. Anzi, voglio essere ancora più preciso. Io mi curo al Pascale!
Nicola Ciaramella
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