Una storia triste, svilente, umiliante, quasi raccapricciante, che non arriva da un’azienda privata dell’estremo sud. Bensì da un ospedale pubblico dell’estremo Nord, in Trentino Alto Adige. Chi ce l’ha raccontata è un collega infermiere di Roma, laureatosi diversi anni fa e che, alla ricerca di una stabilità contrattuale assai difficile da raggiungere nel nostro paese e di un riconoscimento sociale ed economico diverso, ha lavorato per diversi anni all’estero. Prima di ritornare qui nel bel paese per motivi personali, stanco com’era di vivere e di lavorare così lontano da casa e in un paese assai diverso dal nostro.
Il collega ci ha chiesto di garantire il suo anonimato e perciò, oltre a chiamarlo con un nome di fantasia (Carlo), tuteleremo lui e la sua attività lavorativa non nominando la struttura (che ribadiamo essere un ospedale pubblico dell’estremo nord) e i nomi dei soggetti interessati, anche se esistono diversi testimoni in grado di confermare questa sua versione dei fatti.
Parlaci in breve del tuo percorso, caro Carlo.
Beh, non c’è molto da dire: mi sono laureato a Roma e, dopo aver cercato lavoro per un anno circa, ho deciso di fare fagotto e di andarmene all’estero per mettermi alla prova e per fare un’esperienza. Non ero disposto, infatti, a essere sfruttato dal sistema consolidato e senza uscita fatto di cooperative, associazioni, contrattucci a termine e partite iva. Sono stato fuori per anni e ho deciso di ritornare in Italia da poco, stanco di stare così lontano. Ma avevo dimenticato il tipo di riconoscimento professionale e sociale che gli infermieri hanno qui in Italia…
Cosa ti è successo al tuo ritorno?
Beh, una bella e indimenticabile umiliazione, che mi ha portato a dare le dimissioni. E parlo di un ospedale pubblico, dove avevo un contratto a termine. Non di una cooperativa, di un privato o cose di questo tipo.
Parlacene…
Faccio una premessa: non sono mai andato a genio alla coordinatrice di quel reparto di ortopedia, perché a suo dire avevo cambiato troppi posti di lavoro. Come se le scelte di vita che sono stato costretto a fare per sperare in un futuro roseo per me e per la mia vita fossero in qualche modo qualcosa da guardare con sospetto. Va beh. In pratica non le piaceva come rifacevo i letti (come se ciò, tra l’altro, fosse di competenza infermieristica). Facevo male l’angolo, a suo dire. E per lei l’infermiere doveva prima saper fare alla perfezione l’OSS, così da poter svolgere indistintamente la funzione di entrambi. Gestione degli effetti letterecci compresa.
Per farla breve: in una giornata come tante, dove il reparto era piuttosto ingolfato e avevamo tante cose da fare, mi ha di nuovo ripreso per un letto che lei reputava essere stato fatto male. Quindi mi ha obbligato a stare in una stanza con un allievo OSS a rifare 50 volte lo stesso letto vuoto, così da imparare bene la tecnica giusta.
50 volte? Lo stesso letto vuoto? Con un allievo OSS? Ho capito bene? Perdonami, ma faccio seria fatica a comprendere…
Sì, hai inteso benissimo. 50 volte. Contavamo ad alta voce. E lo abbiamo fatto fino alla 50esima. Ero nel periodo di prova e mi è stato fatto capire che a causa di queste mie gravi negligenze probabilmente non lo avrei superato. Fortunatamente avevo già deciso di dare le dimissioni.
Quanto ti sei sentito umiliato, come professionista, nell’essere costretto a qualcosa di questo tipo? E perché non ti sei rifiutato?
In quel momento ero come paralizzato, pensavo sul da farsi. Mi sembrava una specie di incubo, ero totalmente preso in contropiede. E, caratterialmente, quando mi trovo in nuovi posti di lavoro cerco subito di adattarmi, almeno all’inizio, alle dinamiche (seppur strane e discutibili) del posto di lavoro; per non creare polemiche e non alterare certi equilibri. Poi però, fortunatamente, in seguito a quell’episodio, ho recuperato forze e dignità. Mi sono sentito tanto umiliato.
Hai segnalato tutto ciò all’OPI?
…………… No.
Perché? Paura?
…………… Forse sì.
E pensi che silenzio e omertà siano la scelta migliore per te e per la professione?
No, ma… Non posso rischiare di non lavorare più.
Sei iscritto a Roma. E ti garantisco che l’OPI di Roma, in caso di segnalazioni di questo tipo, garantisce il totale anonimato ai propri iscritti (VEDI). Perché intanto non ti fai una bella chiacchierata con la presidente, dott.ssa Pulimeno? È necessario segnalare e denunciare, se vogliamo che cambi davvero qualcosa.
Come posso fare?
Per segnalare, intendi? Invia una PEC dettagliata all’OPI di Roma, racconta tutto. Fallo per la professione. Investi qualche minuto del tuo tempo per gli infermieri italiani. Basta lamentarci, se non abbiamo mai il coraggio di contribuire davvero per far cambiare le cose.
Hai ragione. Parlare con te, al di là di tutto, mi ha dato coraggio. Sì, ti prometto che a breve scriverò la mia email. Comunque volevo dirti non sono stato proprio in silenzio. Non ho segnalato all’Ordine, ma… Ho contattato l’AADI e si stanno occupando loro del mio caso. E prima ho anche inviato una relazione dettagliata alla dirigenza infermieristica dell’ospedale per raccontare tutto ciò che mi è successo e quello a cui sono stato costretto.
E la dirigenza? Come si è comportata? Ha agito?
Mi ha totalmente ignorato, non ho mai nemmeno ricevuto risposta.
Lascia un commento