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Infermieri, facciamo chiarezza: cos’è l’assistenza infermieristica?

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Nel panorama sanitario attuale, numerose professionalità hanno, nel corso degli anni, gradualmente precisato il proprio contributo originale nel campo della cura e dell’assistenza

Sappiamo perfettamente che il medico si occupa di individuare una diagnosi (medica) e di impostare un processo terapeutico; l’ostetrica è il professionista di riferimento della donna durante tutta la gravidanza; il fisioterapista si occupa della riabilitazione delle disabilità…in tale prospettiva, qual è il contributo autonomo dell’infermiere?

Facciamo fatica a rispondere, perché il nostro contributo autonomo non lo abbiamo ancora sviluppato in pieno e anzi, rimane improvvisato e relegato nei pochi spazi di tempo ritagliati nella pratica clinica quotidiana.

Quella che manifestiamo è solo la parte esecutiva e collaborativa dell’assistenza; la terapia occupa una buona parte della giornata di un infermiere tuttavia non è quella la nostra specifica competenza professionale.

L’applicazione del processo terapeutico come da DM 739/94, pur essendo un’ attività in cui elevate sono le responsabilità dell’infermiere, rimane un attività esecutiva, in cui il potere decisionale della sua attivazione è determinato da un altro professionista, in questo caso il medico; spesso pensiamo che, finita la terapia, abbiamo esaurito il nostro lavoro.

Così facendo continuiamo ad alimentare una concezione subordinata ed esecutiva dell’assistenza infermieristica.

Evelyn Adam, una teorica del nursing affermava: “La maggior parte delle infermiere sostiene che l’assistenza non si limita all’esecuzione delle prescrizioni mediche ma che è più di questo. Ora è necessario esplicitare questo più di questo”.

Ed esplicitiamolo perché ci fa bene dato che l’estrema flessibilità/indeterminazione del lavoro dell’infermiere ci sta facendo perdere consapevolezza del nostro stesso ruolo e del nostro specifico, originale e autonomo contributo alla persona in salute o nel suo momento di massima fragilità.

Cosa è l’assistenza infermieristica ce lo dicono le varie teoriche, a mio avviso il modello bifocale di LJ Carpenito è il più completo poiché contempla la parte collaborativa e la parte autonoma dell’assistenza. Ma in cosa consiste la parte autonoma?

L’assistenza infermieristica ad oggi consiste essenzialmente nel prendersi carico delle conseguenze della malattia di tipo fisiologico, psicologico e sociale sul vivere quotidiano e sull’autonomia della persona considerata nella sua totalità e soggettività; si caratterizza per un complesso insieme di attività nelle quali è possibile riconoscere una dimensione tecnica ma anche e soprattutto relazionale ed educativa.

Questo dovrebbe essere l’elemento fondativo dell’ azione degli infermieri, il motore della prassi clinica.

Nella nostra quotidianità operativa, invece, emerge ancora molto la parte collaborativa a supporto dell’attività diagnostica e terapeutica del medico; altresì la parte autonoma la pratichiamo quando “abbiamo tempo” o comunque la consideriamo secondaria alla prima. Ma analizziamo attentamente alcuni gli elementi.

Prendersi carico: vuol dire essere il punto di riferimento della persona assistita e la sua famiglia, indirizzarli durante il loro percorso diagnostico – terapeutico – assistenziale e guidarli nella selva burocratica del SSN.

Un vero e proprio manager dell’assistenza. Prendersi carico dell’assistito non equivale alla somma delle varie attività manuali sull’assistito; altresì è una attività intellettuale che riconosce nella pianificazione assistenziale lo strumento principale d’azione.

Conseguenza della malattia: non ci interessa tanto la malattia in se quanto le conseguenze di essa non solo dal punto di vista fisiologico ma anche psicologico e sociale. Ma la pianificazione assistenziale (laddove esiste) contempla anche la rilevazione dei bisogni psicosociali? O ci fermiamo alla rilevazione dei bisogni fisiologici?

Quando va bene, poiché in alcune realtà è ancora il medico a decidere su alcuni bisogni di assistenza infermieristica come ad esempio la mobilizzazione o l’alimentazione.

Autonomia della persona considerata nella sua totalità: come si suol dire “qui casca l’asino”. Quante volte abbiamo sentito giustificare il demansionamento con il “considerare la persona nella sua totalità/globalità, a 360°”.

Ebbene considerare la persona in toto, secondo una prospettiva olistica vuol dire rilevare e trattare i bisogni di assistenza infermieristica tenendo sempre presente la cultura, i valori, i sentimenti, i vissuti e le volontà espresse da ciascun individuo.

Il modello olistico rappresenta il modello concettuale con cui noi ci approcciamo a concepire la salute e la malattia diverso dal modello biomedico che considera, in una prospettiva riduzionista, la malattia come una disfunzione d’ organo.

In altre parole è il nostro paio di occhiali con cui vediamo la realtà.

Dimensione tecnica, relazionale ed educativa: La tecnica, da sola, non ci fa un professionista. Per mettere in atto tutto ciò scritto nelle righe precedenti non possiamo prescindere dalle altre due dimensioni fondamentali dell’assistenza infermieristica che si attua pienamente quando infermiere e paziente realizzano una relazione autentica ed empatica.

Ma “paziente” non è propriamente il termine corretto da utilizzare nel 2017.

Un sociologo, autorevole studioso delle dinamiche sanitarie, Ivan Cavicchi, dice che il paziente è diventato è un “esigente”; ovvero non più un individuo accettante passivamente le cure proposte ma un soggetto informato con cui le cure vanno concordate volta per volta.

Come si può contrattare la cura se non coltiviamo la relazione e il rapporto di fiducia con l’assistito?

Attenzione, la relazione e il rapporto di fiducia si fondano sulla comunicazione e sulla pratica dell’ascolto, non divenendo amiconi dei nostri assistiti!

Ma molto spesso percepiamo la pratica dell’ascolto come una perdita di tempo, perché c’è altro da fare…magari i letti!

Educazione terapeutica: non significa (solo) l’educazione sulla terapia ma assume il significato di educazione curativa proprio come una terapia.

L’aumento delle malattie croniche, delle fragilità e delle pluripatologie fa emergere il bisogno di saper gestire e far convivere la persona con la propria malattia. Ma noi percepiamo l’educazione terapeutica come la parte più autonoma della nostra professione, il cuore della disciplina infermieristica?

Pensiamoci bene, quanti sono i colleghi che davanti a una richiesta di informazione da parte dei familiari, si limitano a conferire gli orari di ricevimento dei medici?

Essere professionisti responsabili vuol dire rispondere in prima persona del proprio operato; ma quanti di noi si comportano come ausiliari in questo frangente, provocando un silente danno di immagine alla professione?

Se nella pratica clinica facciamo tutto quanto scritto in queste righe, bene applichiamo il profilo professionale. Se invece non è così, invito i lettori a dotarsi di tanto pensiero critico per problematizzare la prassi attuale e sottoporre a dubbio la nostra pratica clinica quotidiana.

Il dubbio è rivoluzionario, se Copernico non avesse sollevato dubbi sulla teoria geocentrica oggi saremmo stati indietro di qualche secolo!

Si parla tanto, giustamente, di demansionamento ma non pensiamo a quanto siamo deprofessionalizzati cioè depauperati/svuotati delle nostre potenzialità, dell’offerta professionale di un dottore in infermieristica.

Questo è un grande spreco per la società: formare l’infermiere in università per poi utilizzarlo come 30 anni fa!

Allora FORZA avanti con l’affermazione di questa nuova cultura come una goccia in grado di scalfire la roccia dell’arretratezza e dell’inadeguatezza.

Raffaele Varvara

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