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Infermieri “angeli della morte”: vittime o carnefici?

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Infermieri "angeli della morte": vittime o carnefici?
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Come è possibile che negli ultimi decenni si sia assistito a un aumento mondiale di suicidi-omicidi tra gli infermieri? Proviamo a dare una risposta.

Il decreto n. 739/94, riguardante la determinazione del profilo professionale dell’infermiere, rappresenta una pietra miliare nel processo di professionalizzazione dell’attività infermieristica. Esso riconosce l’infermiere come responsabile dell’assistenza generale infermieristica, precisa la natura dei suoi interventi, gli ambiti operativi, la metodologia del lavoro, le interrelazioni con gli altri operatori, gli ambiti professionali di approfondimento culturale ed operativo e identifica cinque diverse aree di formazione specialistica (sanità pubblica, area pediatrica, salute mentale/psichiatria, geriatria, area critica).

Il profilo disegnato dal decreto è quello di un professionista intellettuale, competente, autonomo e responsabile.

Secondo l’articolo 1 del codice deontologico: “l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica”.

Secondo l’ articolo 7 del codice deontologico: L’infermiere orienta la sua azione al bene dell’assistito di cui attiva le risorse sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile, in particolare, quando vi sia disabilità, svantaggio, fragilità.

Dal breve excursus storico in merito al processo di professionalizzazione della figura dell’infermiere, si deduce in modo nitido come il legislatore abbia dato grande autonomia, competenze e responsabilità a questa categoria di professionisti andando ben oltre quella che era la “mera vocazione” della professione avvolgendo tale figura di “doti e capacità” tipiche di figure integerrime, di saggezza, di rigore quasi ispirate da “poteri mistici.”

Il legislatore lo definisce come colui che è responsabile dell’assistenza generale infermieristica, che orienta la sua azione al bene, attivando le proprie risorse (materiali, intellettuali e spirituali) per il bene altrui.

Dall’analisi di questa breve premessa diviene quasi naturale chiedersi come sia possibile, che negli ultimi decenni si sia assistito a livello mondiale ad un trend sempre in aumento di suicidi-omicidi tra gli infermieri.

Forse la visione del legislatore è stata troppo lungimirante,  utopistica o semplicemente non si sono poi attuati provvedimenti ed azioni tali da mettere l’infermiere nelle condizioni di diventare quel professionista tanto auspicato?

Forse sono stati troppo pochi gli anni di cambiamento culturale e professionale che hanno visto, in pochi decenni ed in modo frettoloso e non omogeneo su tutto il territorio nazionale, l’infermiere da mero esecutore delle prescrizioni mediche a figura autonoma, competente e responsabile.

Il passaggio dalla scuola regionale all’università, l’istituzione del corso di coordinamento prima e poi la dirigenza infermieristica ha risposto ad esigenze contingenti di organizzazione lavorativa ma forse non ha dato tempo e modo all’infermiere di elaborare questa profonda trasformazione culturale e lavorativa.

E allora sempre tutto di corsa, di fretta, la frenesia di essere e dover essere sempre in prima linea e rispondenti alle nuove richieste dell’utenza da una parte e dell’organizzazione lavorativa dall’altra.

La brama di arrivare ad ambire posizioni apicali, il risveglio delle menti assopite negli infermieri più audaci ed ambiziosi.

La rivincita di autonomia e competenze proprie rispetto alla figura del medico, l’abolizione del mansionario e dello stato di sudditanza.

La possibilità di uscire dallo schema dei turni, dalle notti insonni, l’ambizione di uno stipendio più consono ed adeguato alle nuove competenze.

Lo spiraglio dell’insegnamento in ambito universitario e la possibilità di diventare dirigenti.

Il tutto mescolato al turbinio della vita quotidiana fatto di famiglia, figli, preoccupazioni, salario, salute da una parte e la totale disponibilità verso l’azienda, in termini di turni massacranti, rientri, riposi saltati, festività e ferie vincolate all’organizzazione lavorativa.

In ultimo ma non per questo meno importante il rapporto con la persona malata, con i suoi famigliari, le loro esigenze, i bisogni, le frustrazioni, la paura della morte, il dolore, la rabbia, il rapporto con i colleghi, con il coordinatore ed i medici, sono forse solo alcune cause scatenanti di stress lavoro-correlato, burn-out e stati ansiosi-depressivi che potrebbero essere alla base o il fattore scatenante  dell’aumento dei suicidi-omicidi tra gli infermieri.

Partendo da queste considerazioni, il seguente elaborato è stato prodotto al fine di descrivere il fenomeno ambivalente del suicidio-omicidio nella categoria professionale degli infermieri. Come professionista infermiere e futura figura dirigenziale, ho voluto trattare questo argomento per i seguenti motivi:

  • potrebbe in futuro riguardarmi direttamente o indirettamente;
  • la casistica è in costante aumento a livello mondiale;
  • i mass media e le organizzazioni tendono ancora ad oggi a non affrontare il problema, in particolare dei suicidi, mentre vengono messi alla “gogna mediatica” i casi di omicidio anche quando, a volte,  le circostanze non sono ancora state confutate da prove scientifiche;
  • vedere lo “stato delle cose”; cosa si sta facendo, che strumenti vengono adottati per prevenire il fenomeno;
  • trovare lo spunto per una riflessione futura.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera il suicidio (i termini generali) come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o ad un motivo preciso. Esso sembra piuttosto derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali.

Il suicidio, nell’ambito della salute pubblica, è un problema che potrebbe essere in gran parte prevenuto (Pompili, 2008). Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un dolore mentale insopportabile, allora il compito principale di colui che é deputato ad aiutare l’individuo é alleviare questo stato con ogni mezzo a disposizione (Shneidman, 2004; 2005).

Se infatti si ha successo in questo compito, quell’individuo che desiderava morire sceglierà di vivere (Shneidman, 1993). Inoltre si deve considerare che le fonti principali di dolore psicologico hanno origine dai bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni, e il dolore che ne deriva, ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalità e bisogni che, quando sono frustrati, inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere determinati obiettivi come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati, compresi e ricevere conforto.

Shneidman (1985) ha proposto una specifica definizione di suicidio nella quale afferma che attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione.

Da un’indagine condotta da Nurse24.it resta alta la percentuale di suicidi tra gli Infermieri Italiani nel 2014 e nei primi mesi del 2015.  In particolare è emerso prepotentemente un dato di fatto: tra casi conclamati e casi dubbi mediamente si toglie la vita 1 infermiere/una infermiera al mese. Lo testimoniano le cronache dei giornali (on line e cartacei), le denunce sindacali e il numero degli espianti d’organo in aumento, che riguardano oltre il 30% dei colleghi defunti tragicamente (compreso gli incidenti stradali e/o sul lavoro). Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che si è espressa in un Rapporto del 2014 (Preventing suicide: a global imperative), i suicidi si possono prevenire.

Quella della morte auto-inflitta, compresi gli operatori sanitari e gli Infermieri, solo nel 2012 ha comportato più di 800.000 decessi totali (in prevalenza adolescenti e giovani), diventando di fatto la quindicesima causa di decesso a livello planetario. Solo in Italia la media è di 12 infermieri all’anno. Tra gennaio e aprile 2015, infatti, si sono registrati 4 casi, di cui uno dubbio. Gli ultimi due a Novafeltria in Romagna e a San Marco in Lamis in Puglia.

Quali sono le cause che inducono i colleghi al suicidio? Tantissime. Molto complesso l’eventuale piano di intervento che non può prescindere da un’attenta disamina degli agenti scatenanti: motivi psicologici, lutti improvvisi, mobbing, problemi fisici e psichici, malattie invalidanti o diagnosi infauste, delusioni d’amore, stress lavorativo, turni massacranti, mancati riposi, incidenti dolosi/colposi e altro possono mischiarsi assieme nell’immenso calderone di dati contenuti nella mente umana, dove a un certo punto accade qualcosa e il desiderio di farla finita prevale su tutto il resto. Per l’OMS è possibile prevenire i suicidi, ma occorre che le strutture sanitarie si dotino degli strumenti adatti a fornire supporto a 360° senza trascurare i seppur minimi dettagli di malessere. L’Infermiere per sua natura è sottoposto al rischio burn-out, condizione psico-fisica che lo mette a confronto tutti i giorni con sindromi depressive dovute spesso a un contatto continuo con l’agente MORTE e all’enorme mole di lavoro a cui è sottoposto quotidianamente per la mancanza cronica (e ingiustificata?) di personale.

Molti collegi IPASVI, compresa la Federazione Nazionale degli Infermieri, da tempo si occupano dell’argomento, anche se relativamente al supporto dell’Infermiere nei confronti del paziente; finora nessuno o quasi si è soffermato sui casi di decessi auto-inflitti tra colleghi, a dimostrazione che il problema è sottovalutato e che non si reagisce in maniera adeguata facendo prevenzione o intervenendo sui casi segnalati.

Alcuni studi legali nazionali ed extra-nazionali si stanno occupando da qualche mese di singoli decessi e hanno intrapreso o stanno per intraprendere azioni volte a tutelare le vittime dei suicidi che spesso non sono solo quelle decedute (ma i loro familiari, le mogli, i mariti, i genitori, i figli, i compagni, le compagne).

La tesi portata avanti dagli avvocati è quella dell’OMICIDIO COLPOSO. Le Aziende Pubbliche e Private che sottopongono a stress lavorativo e a mobbing i loro subordinati o collaboratori sono da condannare perché vanno contro la Legge e soprattutto contro l’umana considerazione.

I casi di suicidio non riguardano solo gli Infermieri o le Infermiere già formati ma anche gli Studenti Infermieri. Solo in Romagna si sono registrati 5 casi di morte auto-inflitta negli ultimi 4 anni; altri casi si registrano in Veneto, in Lombardia, in Toscana, nelle Marche e in altre realtà del Nord Italia, dove probabilmente qualcosa scatena il malessere latente che porta poi all’estremo gesto.

La maggioranza dei casi analizzati sono accomunati dal cosiddetto “ gesto plateale”: impiccagione, somministrazione di sostanze endovena, salti nel vuoto, soffocamento con sostanze gassose, scontro con mezzi o treni ed altro. Ciò dimostra la chiara volontà di comunicare un disagio e l’isolamento in cui si vive nell’era dell’informazione di massa e dei social-network.

Nel tentativo di prevenire i suicidi e fornire un sostegno alla sintomatologia depressiva, il team guidato dagli psichiatri dell’Università del Michigan e della Medical University of South Carolina ha sviluppato un interessante strumento web-based per il supporto psicologico degli operatori sanitari basato sui principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale (wCBT). Lo strumento si chiama MoodGYM e propone una forma di talk therapy a cui ci si può rivolgere comodamente dal proprio ufficio. Dalla letteratura analizzata risulta che ad oggi lo strumento è’ stato utilizzato in uno studio RCT solo con giovani studenti medici. MoodyGYM permette di riconoscere i primi sintomi della depressione, di trattarli e si configura come un ottimo strumento per ridurre l’ideazione suicidaria. Si potrebbe auspicare in futuro un’implementazione dello strumento anche in ambito infermieristico.

In netta contrapposizione agli  infermieri suicidari troviamo la figura degli “Angeli della morte” (detti anche angeli della misericordia). Termine utilizzato in criminologia per indicare una categoria di serial killer atipici piuttosto rara, che agiscono nell’ambiente medico e/o ospedaliero. Le loro vittime sono i pazienti con i quali entrano in contatto.

Spesso si tratta di persone in cattivo stato di salute, come anziani e malati cronici, oppure deboli, come neonati o bambini. Il modus operandi prevede in genere la somministrazione di farmaci o sostanze tossiche tramite iniezioni. Questo rende gli omicidi particolarmente difficili da scoprire, in quanto ad un esame poco approfondito le morti possono essere archiviate come incidenti o avvenute per cause naturali. Nell’eventualità di un’autopsia, inoltre, la presenza di queste sostanze può essere facilmente giustificata. I moventi di questi serial killer sono diversi. Alcuni di essi uccidono per la sensazione di onnipotenza che deriva dall’avere il controllo sulla vita e sulla morte dei pazienti.

Altri, invece, dichiarano di agire unicamente per alleviare le sofferenze delle persone che hanno in cura, motivazione che nella maggior parte dei casi viene sfatata dalle condizioni di salute non irreversibili (talvolta nemmeno gravi) di molte delle loro vittime al momento del decesso. Una categoria particolare di angeli della morte che creano una situazione di emergenza, mettendo volontariamente a repentaglio la vita del paziente di cui si stanno occupando invece di ucciderlo, unicamente per attirare l’attenzione su di sé. Dalla letteratura esaminata sembra emergere che questo comportamento sia spesso collegato ad una particolare manifestazione di sindrome di Münchhausen per procura. Oltre a questo particolare disturbo mentale , non è raro che gli angeli della morte siano affetti da  uno o più disturbi di personalità (solitamente borderline, istrionico, narcisistico e/o ossessivo-compulsivo).

Spesso la loro attività omicida subisce un picco nei periodi di forte stress e depressione. Spesso questi serial killer finiscono col tradirsi, in quanto la loro sicurezza aumenta ad ogni omicidio e la cosa li porta a trascurare dei dettagli importanti della vittima (ad esempio, il suo stato di salute e le terapie che seguiva), e ad entrare in uno stadio involutivo particolarmente pericoloso, a tratti delirante. Il più delle volte la loro attività giunge al termine dopo la morte di uno o più pazienti in buone condizioni di salute, oppure perché il comportamento del killer si fa sempre più sospetto, quando non addirittura manifesto.

Anche la produzione cinematografica è ricca di casi inerenti la figura degli  “Angeli della morte”; alcune pellicole, in modo specifico, si riferiscono alla figura di personale sanitario, tra cui infermieri,  omicidi. Ne sono solo alcuni esempi:

  • In Misery non deve morire, il protagonista scopre che Annie Wilkes, l’ex infermiera che lo ha sequestrato, è stata accusata in passato di aver agito come un angelo della morte, uccidendo decine di bambini e pazienti anziani che le erano stati affidati.
  • Nella nona stagione di CSI: Scena del crimine, per sopperire all’assenza di Grissom entra a far parte della Scientifica il dottor Raymond Langston (Lawrence Fishburne), docente di criminologia all’Università di Las Vegas. Langston è un medico specializzato in patologia forense e anni prima lavorava in un ospedale dove un suo collega era un angelo della morte, che uccise ben 27 pazienti prima che Langston riuscisse a unire le prove dei decessi sospetti. A seguito di questa esperienza, sentendosi responsabile della morte di quelle persone, scrisse un libro sulla storia dell’angelo intitolato In front of my eyes (Di fronte ai miei occhi) che stava a significare che, nonostante avesse avuto le prove davanti agli occhi per anni, non era riuscito a collegarle tra di loro.
  • Nella prima stagione di I.S. Roma – Delitti imperfetti le indagini della squadra sono incentrate su un angelo della morte che colpisce iniettando alle sue vittime un cocktail letale di farmaci. L’autrice di questi delitti è Lili (Liliana) Paravidino, la quale non è un’infermiera bensì una paziente che rivendica la scomparsa del padre morto di leucemia mesi prima.

Ma nella realtà chi sono gli Angeli della morte? Infermieri e infermiere accusati – e condannati – per aver ucciso i pazienti che avevano in cura. Ma i ‘serial killer in corsia’ hanno fatto vittime in tutto il mondo, in alcuni casi facendo decine di morti.

Daniela Poggiali – condanna all’ergastolo in Corte d’Assise a Ravenna,  accusata di aver ucciso la paziente di 78 anni Rosa Calderoni la mattina dell’8 aprile 2014, a poche ore dal ricovero. Il pm Angela Scorza sospetta che quella di Rosa Calderoni possa essere stata solo l’ultima morte di una lunga scia (una novantina nel periodo preso in esame da una perizia statistica citata in aula). Prediligeva dosi massicce di cloruro di potassio. Con le sue iniezioni procurava uno “shock cardiogeno”. Poi una volta giunto il decesso, cercava di occultare l’omicidio. L’azione omicidiaria dell’infermiera sarebbe stata secondo il giudice “dettata da una volontà di autocompiacimento e di sopraffazione di chi versava in condizioni di debolezza”.

Sonya Caleffi – condannata in via definitiva a 20 anni di reclusione, l’infermiera dell’ospedale Manzoni di Lecco, aveva ucciso cinque pazienti con iniezioni di aria. In altri tre casi non era riuscita a portare a termine il ‘lavoro’. Agli inquirenti ha raccontato che aveva agito per farsi notare dai suoi superiori, intervenendo prontamente di fronte alle embolie che lei stessa causava con le iniezioni. I giudici del merito, pur riconoscendo dei disturbi di personalita’ della donna, l’avevano ritenuta perfettamente lucida e consapevole al momento dei fatti. Sonya a quindici anni incomincia a soffrire di depressione e di anoressia nervosa, ma a scuola rimane una ragazza molto tranquilla, con buon profitto. Non desta sospetti.

Alfonso De Martino – soprannominato “l’infermiere di Satana” accusato di aver ucciso tre pazienti all’ospedale di San Giuseppe Albano (Roma) fra il 1990 e il 1993.

 Antonio Busnelli – nel ’93, fu accusato di 28 omicidi anche se si sospetto’ ne avesse compiuti molti di piu’.

Angelo Stazzi – infermiere 69enne accusato della morte di cinque dei sette anziani ricoverati nella casa di cura ‘Villa Alex’ di Sant’Angelo Romano, localita’ alle porte della capitale. In quella clinica, Stazzi lavoro’ dal dicembre 2008 al settembre 2009. Stazzi fu condannato nel dicembre 2011 a 24 anni di carcere anche per la morte della collega (ed ex amante) Maria Teresa Dell’Unto, uccisa per un prestito non saldato. Uccideva gli anziani per lo piu’ in fase terminale o malati di Alzheimer, in cambio di pochi euro, qualche vestito o una piccola mancia da parte delle agenzie di pompe funebri. Tutte  le morti sono avvenute per grave ipoglicemia determinata dalla somministrazione di forti dosi di insulina. L’uomo somministrava agli anziani prima forti dosi di psicofarmaci per abbatterne il sistema immunitario, poi iniezioni letali di insulina. Nessuna delle vittime era affetta da diabete o aveva gli psicofarmaci, come medicinali inseriti nei trattamenti di cura.

Stephan L. – 28 anni, infermiere nell’ospedale bavarese di Sonthofen, uccise con iniezioni letali ventisette pazienti. Il tribunale lo ha riconosciuto colpevole dell’uccisione premeditata di 12 pazienti, dell’omicidio di altri 15 e di tentato omicidio in altri cinque casi. Per provocare i decessi dei pazienti a lui affidati, avvenuti tutti tra l’inizio del 2003 e la meta del 2004, somministrava prima sostanze narcotizzanti, poi iniezioni di farmaci che provocavano una paralisi muscolare, con il conseguente blocco della respirazione.

Edson Izidoro Guimaraes – Accusato di aver ucciso 132 pazienti ricoverati all’ospedale Salgado Filho di Rio per rincassare le “commissioni” di una agenzia di pompe funebri. Affermo’ che la sua intenzione era solo di alleviare le sofferenze di malati di Aids e di altre gravi affezioni in stadio terminale togliendo loro le maschere d’ossigeno oppure procedendo con una inziezione letale.

Waltraud Wagner, Irene Leidorf, Stefanija Mayer e Maria Gruber – Condannate a all’ergastolo, 20 e 15 anni per aver ucciso fra il 1983 e il 1989 20 pazienti con dosi letali di medicinali o versando dell’acqua nei loro polmoni in Austria.

Orville Lynn Majors – era infermiere nell’unità di cure intensive dell’ospedale di Clinton, dove tra il 1993 e il 1995 si era verificata un’allarmante “epidemia” di morti di pazienti anziani: 130 persone tra i 56 e gli 89 anni che sembrano stare bene poco prima di una iniezione. Le autopsie delle salme esumate ha rivelato che alcune delle morti sono imputabili ad una iniezione di cloruro di potassio, una sostanza che può bloccare l’attività cardiaca.

Lucy de Berk – infermiera olandese condannata all’ergastolo per aver ucciso diversi pazienti, anziani e bambini, con dosi letali di sostanze stupefacenti. Un tribunale dell’Aia la riconobbe colpevole di quattro omicidi e tre tentati omicidi. Era stata incriminata per la morte di tredici persone, cinque ragazzini e otto anziani, in tre ospedali dell’Aia in cui aveva lavorato dal febbraio del 1997 al settembre del 2001. (AGI)

Questi sono solo alcuni esempi di personalità disturbate che indipendentemente dalla motivazione che le spingeva ad un gesto così assurdo hanno “tra le loro mani” e  decidono il destino dei loro pazienti. Non calcolano gli affetti, il dolore che possono procurare e dispongono della vita degli altri come meglio credono. In una sorta di onnipotenza. “Il legame che si stabilisce tra l’Angelo della morte e la propria vittima è un legame di tipo assistenziale” spiega Sara Pezzuolo, psicologa giuridica. “Le vittime prescelte sono proprio i pazienti con i quali entra in contatto e con cui instaura un legame che rimanda, nella sua massima espressione, al movente del delitto”.  “Una delle classificazioni proposte dall’FBI dei serial killer è stata stilata tenendo conto delle motivazioni (movente) che portano al compimento del delitto” dice Pezzuolo. “Nel caso specifico degli Angeli della Morte essi solitamente vengono fatti rientrare nella categoria del “Serial Killer Dominatore” cioè tra coloro che uccidono per esercitare il totale controllo di vita e di morte su un’altra persona: gli Angeli della morte dichiarano che uccidono le proprie vittime perché, ad esempio, sono stanche di vederle soffrire. In realtà l’agito delittuoso è determinato dal profondo bisogno di sentirsi potenti e gratificati quasi potendosi sentire “Dio”.

Inoltre, solitamente l’attività omicida può essere associata a periodi di forte stress o depressione associati anche alla presenza, in alcuni casi, di disturbi di personalità quali il disturbo borderline, istrionico, narcisistico, come già accennato in precedenza. “A differenza di altri omicidi” aggiunge Pezzuolo, “quelli commessi dagli Angeli della morte non sempre sono facili da identificare come omicidi dal momento che queste morti possono facilmente essere scambiate per morti naturali e, come tali, archiviate.

Il fatto che questi assassini siano medici, infermieri, ostetriche o altro non rappresenta il movente, semplicemente evidenzia come per questi soggetti abbiano più facilità rispetto ad altri a procurarsi “armi”e vittime. Vengono definiti assassini seriali tanto quanto camionisti, contadini, barbieri, etc., perché uccidono più persone senza che vi sia un rapporto diretto di conoscenza con la vittima, hanno la chiara intenzione di uccidere, lo fanno attraverso una ripetitività dell’azione omicidiaria, senza che il perché sia immediatamente desumibile.

E allora cosa possiamo fare per arginare il fenomeno? L’attuale modalità di valutazione dell’idoneità psicofisica degli esercenti la professione sanitaria è sufficientemente adeguata? Esiste la possibilità di identificare, attraverso dei test, il potenziale latente di questi soggetti di commettere omicidi? E se esistessero è possibile giuridicamente richiederne la somministrazione prima che prendano servizio? Un professionista che abbia manifestato comportamenti a rischio presso una struttura potrebbe essere inserito in una banca dati condivisibile tra le diverse aziende sanitarie? Il controllo del consumo dei farmaci, oltre ad avere una valenza economica, potrebbe fungere da indicatore per la gestione del rischio in questi casi? La discussione dei casi dei decessi anomali, se non addirittura sospetti, attraverso audit che coinvolgano le Direzioni, la Medicina Legale, i professionisti, avviene regolarmente? I professionisti segnalati dalla medicina preventiva come soggetti psicologicamente fragili, come vengono poi gestiti nelle diverse unità operative?

Queste sono le domande che mi sarebbe piaciuto sentir porre alla trasmissione “Porta a Porta” alla Dottoressa Mangiacavalli, Presidente della Federazione Nazionale Collegi IPASVI, alle quali Lei avrebbe dato risposte esaustive. Invece, una domanda posta da Bruno Vespa è stata: cosa spinge un infermiere ad uccidere? Allo stesso modo si potrebbe chiedere cosa spinge un panettiere ad uccidere? Un avvocato? Un contadino? Un medico? Un giornalista? (E si perché tra gli assassini si possono annoverare anche queste professioni!).

Indipendentemente dalla professione svolta dai presunti od accertati assassini, ci si dovrebbe invece domandare cosa spinge una persona a diventare un assassino o addirittura un assassino seriale? E subito dopo bisognerebbe domandarsi se queste morti sono evitabili e come.

Ma vediamo brevemente nel dettaglio che cosa di concreto si sta facendo per prevenire/arginare il duplice problema del suicidio/omicidio tra infermieri. Il primo gennaio 2011, è entrato in vigore l’obbligo, per tutte le Aziende, di inserire nel documento di valutazione dei rischi anche la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. L’Art. 32 del DL.vo 81/2008 stabilisce, inoltre, che tutti coloro che sono responsabili della sicurezza debbano ricevere adeguata formazione in materia di stress da lavoro.

Ma basta un documento per arginare il problema? Abbiamo accennato alla presenza di una pluralità di fattori che possono essere la causa o concausa di questi eventi drammatici.

Si è fatto riferimento a concetti come:

  • disturbi di personalità
  • stati depressivi
  • burn-out
  • mobbing
  • stress lavoro correlato

che possono essere raggruppati sotto alcuni grossi capitoli:

  • problematiche lavorative e precarietà
  • società / ambiente esterno /familiare
  • personalità (ambiente interiore)

diventa allora possibile affrontare il problema solo con una Normativa che ancora una volta ci dice cosa bisognerebbe fare a livello teorico ma che poi fà fatica a prendere concretamente applicazione nelle singole realtà lavorative?

Molti di noi purtroppo non si rendono ancora chiaramente conto del fatto che tutti i cambiamenti della vita possono essere fonte di stress sia dal punto di vista della salute fisica, sia di quella mentale. Secondo Selye, le persone possiedono un “serbatoio di energie” per fronteggiare gli stimoli esterni, in base al quale si determina il livello di resistenza al fenomeno. Questa resistenza si esaurisce quando:

  1. l’agente stressante è particolarmente intenso,
  2. quando più fattori stressanti agiscono contemporaneamente,
  3. quando l’azione degli agenti stressanti è prolungata nel tempo.

In tutti questi casi si avrà come risultato una situazione di distress, causa di patologie sia psichiche, sia organiche. Allora qual è il confine sottile tra eustress (situazione di stress produce nell’individuo una sensazione di piacere, di gratificazione, agendo come un rinforzo positivo per simili situazioni future, la riserva di energie aumenta) e distress?

Quando viene meno la capacità di resilienza del singolo individuo? Il problema principale degli studi sullo stress è riscontrabile proprio nella soggettività, ovvero nel fatto che ciò che è stressante per una persona può non esserlo per un’altra. Di conseguenza l’azione di gestione dello stress per essere efficace deve differenziarsi a seconda delle caratteristiche individuali.

Lo stress da lavoro è generalmente legato a monotonia, impossibilità di determinare il proprio ritmo di lavoro, ritmi e durata dell’impegno, mancanza di sostegno. Attraverso i numerosi studi sullo stress condotti dai ricercatori, è stato possibile individuare i seguenti indicatori di malessere, che devono far scattare l’allarme circa le condizioni di salute:

  • insofferenza nell’andare a lavoro/assenteismo;
  • disinteresse per il lavoro/Desiderio di cambiare lavoro;
  • alto livello di pettegolezzo;
  • risentimento per l’organizzazione;
  • aggressività inabituale e nervosismo;
  • disturbi psicosomatici;
  • sentimento di inutilità/irrilevanza;
  • sentimento di disconoscimento;
  • lentezza nella performance;
  • confusione organizzativa in termini di ruoli, compiti, ecc.;
  • venire meno della propositività a livello cognitivo;
  • aderenza formale alle regole e anaffettività lavorativa.

Appare sempre più evidente come il bisogno di supportare e sostenere le risorse umane di cui si dispone è oggi in costante crescita. I momenti di difficoltà personale, i disagi e le insoddisfazioni influiscono spesso sulle prestazioni lavorative e rallentano il processo di crescita formativa e produttiva del soggetto. La letteratura è ridondante di  teorie e modelli concettuali da applicare in forma singola e/o di gruppo per il benessere soggettivo ed organizzativo.

Lo studio S3 OPUS che ha messo a punto un servizio di consulenza aziendale in grado di  supportare le organizzazioni nella risoluzione e gestione dei problemi lavorativi, valorizzando le capacità individuali e indirizzando le energie e le motivazioni dei singoli verso sviluppi coerenti con le esigenze dell’azienda e del mercato. Scale di valutazione dello stress lavoro-correlato, del burn-out, indicatori di allerta di sindromi depressive, analisi dei carichi di lavoro, aumento dei gironi di malattia e di infortuni sul lavoro e molto altro.

Ma questo può bastare? Se correlato con i dati epidemiologici degli ultimi anni sicuramente no. I casi a cui assistiamo possono essere semplificati come manifestazioni di distress soggettivo? Forse nei casi di omicidio questo non basta. Qui prevale una forte componente di instabilità emotivo/affettiva che sfocia molto spesso in patologie psichiatriche vere e proprie che indubbiamente il difficile contesto lavorativo accentua ed esaspera fino alla follia del gesto plateale.

E nella realtà lavorativa  presso cui presto servizio che cosa si fa in merito al problema? Confrontandomi con diversi colleghi del reparto di Medicina generale, emerge un dato sconfortante: è molto alta la percentuale di colleghi che pur ammettendo in modo plateale di sentire:

– di “non farcela più”
– di essere stressato
– di sentirsi stanco
– di non dormire la notte
– di avere “le palle piene”
– di non tollerare i colleghi e la coordinatrice
– di fare turni massacranti
– notti insonni e deliranti
– di non essere adeguatamente riconosciuto dalla società (malati, familiari altri professionisti)
– di percepire uno stipendio “da fame”
– di lavorare per inerzia

comunque subisce in modo passivo la situazione per paura di ripercussioni. I colleghi precari vivono in modo più marcato il disagio dello stress lavorativo associato all’ansia di perdere l’unica fonte di sostentamento economica. Oltre 80% dei colleghi ammette di aver chiesto il trasferimento in un’ altro reparto perché non riesce più a sostenere i ritmi ed il carico di lavoro massacranti.  Solo una collega ha ammesso onestamente di aver richiesto aiuto allo psicologo. Molte hanno tentato attraverso il ricorso al medico competente di ottenere “limitazioni lavorative” o esenzione alle notte. Diverse colleghe hanno richiesto il part-time o l’aspettativa. Due colleghe hanno fatto domanda di mobilità esterna (che è stata negata per esigenze organizzative di carenza personale). Nessuna dichiara di vivere situazione di mobbing ma la quasi totalità delle colleghe donne ammette di sentirsi in burn-out. Nessuna ha ammesso di usare farmaci. Nei colloqui è emerso che tutto questo ha forti ripercussioni anche sulla vita affettiva e familiare.

E allora cosa fare? un dipendente come si può far aiutare? Vengono a supporto diverse strade percorribili:

  • il SITRA (Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo Aziendale): che gestisce tutto il personale sanitario non medico
  • Medico Competente
  • il servizio di psicologia clinica
  • gli psicologi messi a disposizione in alcune U.O. in cui il personale è maggiormente a rischio di esaurimento psico/fisico/emotivo (vedi oncologia, T.I.)
  • il medico condotto
  • il CUG (Comitato unico di garanzia): che contribuisce all’ottimizzazione dei principi di pari opportunità, benessere organizzativo e dal contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza per i lavoratori e/o mobbing.
  • Sindacati dei lavoratori

Tutto questo però può essere concretamente di aiuto? Ad oggi non credo, mi rendo conto che seppur qualcosa si è fatto forse non basta. Ci deve essere la volontà di tutto il sistema sanitario ad iniziare un nuovo cammino, seppur tortuoso ed oneroso in termini di costi e risorse (umane ed economiche). Noi siamo in primis persone e come tali abbiamo bisogni che la società e le organizzazioni devono tornare a considerare.  Non siamo semplici matricole o bassa manovalanza da spremere per poi cadere nella più banale indifferenza o incredulità di fronte a casi di infermieri che si tolgono la vita o che uccidono i loro assistiti.

Bisogna avere il coraggio e l’onestà intellettuale di guardare dentro quel comportamento, di contestualizzarlo, di sviscerarlo nelle sue parti più intime e di guardarlo in faccia per dargli un nome affinchè non si ripeta. Capire che dietro quella divisa c’è un essere umano con le sue fragilità e difficoltà che può anche finire per essere vittima di patologie psichiche invalidante e che và precocemente individuato ed aiutato.  Noi purtroppo viviamo in una società di indifferenza e di perdita di valori, ma se oggi quel gesto è toccato ad un collega perfetto estraneo, in futuro potrebbe capitare ad un amico o peggio ancora a noi stessi. Nessuno è immune da tutto ciò.

Mi auspico che in futuro la professione infermieristica smetta di essere bistrattata e raccontata da chi non la conosce affatto. Da chi per interesse personale ha come obiettivo di creare allarmismo tra i cittadini a discapito degli infermieri e del loro esercizio della professione. Da chi ha l’incapacità di sottolineare la differenza tra una professione ed un evento e che finalmente a questa categoria venga dato il giusto riconoscimento.

Morena Allovisio

 

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