Ieri mattina andavo di fretta. Avevo sistemato il cartellino sul taschino insieme alle penne. Le forbici sulla tasca destra. Sulla sinistra avevo intascato il fonendoscopio
Un gioiellino ricevuto alla festa di laurea dai miei. Si, non un aggeggio da pochi euro. Un vero fonendoscopio con la testina doppia e la campana. Ah se Laennec potesse vederlo! Quello inventato da lui nel 1816 era un misero tubo di legno! Geniale però.
Avevo abbottonato la divisa, era di un bianco candido che neanche mia madre riuscirebbe con gli ettolitri di ipoclorito di sodio che utilizza, ad ottenere lo stesso risultato sulle tovaglie.
Portavo il profumo di candeggio addosso, avevo arrotolato i pantaloni in vita perchè l’elastico era allentato e fatto un risvoltino alle maniche. Per colpa dell’afa imponente non si trovava pace neanche coperti di puro cotone in taglia comoda, che lasciava passare qualche spiffero d’aria.
Trascinavo gli zoccoli sul corridoio lucidato ed ero inebriata dall’odore di cera. Un misto di lavanda e miele. Mi piace il mio lavoro. Lo amo.
Nella sala d’attesa degli ambulatori, i pazienti scalpitavano in attesa del medico dell’ambulatorio n.9. Era in ritardo. Qualcuno, vedendomi arrivare, si alzava di scatto chiedendomi spiegazioni su questo o quell’appuntamento, “signora, devo pagare adesso o dopo il ticket?”
Signora???
Mi chiedevano in quale stanza attendere, se l’impegnativa era corretta e se potevo aprire le finestre per loro. Mi chiedevano l’orario di apertura delle casse, come mai lo sciacquone del bagno non funzionava o dove fosse l’ascensore.
“Ciao bella sai dirmi quando arriva il dottore?”
Mi chiese un uomo appoggiandosi con una forza caduca al mio gomito.
Ciao bella???
“E’ già un’ora che aspettiamo quando ci chiamano?”
E tante altre domande condite da ira e lamenti riottosi. Qualcuno con protervia si permetteva il lusso di alzare la voce e lanciare fiotti di parolacce per la coda d’attesa. Ma si regala sempre un sorriso anche al volto più selvaggio, debordante e distruttivo che ci sia.
Nel frattempo le colleghe infermiere degli ambulatori cominciavano a chiamare i pazienti e i medici entravano tutti nelle stanze a testa bassa.
Stamattina invece, sono arrivata in ambulatorio in anticipo. L’aria era più fresca, lieve come il cotone. Ho buttato a lavare la divisa di ieri, alonata sul collo da macchie di sudore ed ho indossato il camice bianco stavolta.
Ho agganciato il cartellino al taschino, infilato la penna, sistemato le immancabili forbici e inserito il fonendoscopio nella tasca sinistra. I pantaloni, di un verde chirurgico, erano di una taglia più consona alla mia. Ho percorso il corridoio di ieri con una cartella in pelle nera appesa alla spalla che pareva da una tonnellata. Il battito del cuore mi stamburava in fondo al petto per la fatica.
Oggi la corsia era più affollata del solito. Sembrava di stare in un atelier asfittico e sovraffollato, e mi accorsi che al mio passaggio le persone non mi sorridevano come ieri. Si aprivano a libro, per lasciarmi passare e abbassavano lo sguardo.
No, non c’era alcun giudizio tranciante. Io ero sempre io, con la faccia da pesce lesso del mattino e il sorriso stampato e loro erano sempre loro, pazienti – pazienti e pazienti -impazienti. Quelli che non sanno gestire la spinosa agitazione, quelli con subdola tranquillità, quelli che sanno buggerarti con la loro parlantina o con i loro piagnistei. Quelli educati e quelli rispettosi, la cui cortesia è una regola intangibile. Quelli buoni, o silenziosi, con un sorriso per tutti.
Oggi, nella sala d’attesa degli ambulatori, nessuno mi ha chiesto informazioni.
Poi, con timidezza, mi si è avvicinato un uomo sulla settantina. “Scusi dottoressa, il suo collega ieri mi ha detto di portare questi documenti”.
“Dot-to-res-sa?” sillabavo dentro di me.
Oggi non ero più l’infermiera sfigata alla quale dare del tu e chiedere dello sciacquone del cesso.
…non ero la signora, la ciao – bella o l’infermiera col fonendo in tasca; indossavo un camice, ero una dottoressa. Uno stupido camice faceva la differenza tra il rispetto e l’inettitudine.
E al dottore si dà del lei, punto. E’ un professionista. Me lo hanno insegnano i pazienti oggi.
Il dottore non si disturba con richieste che puoi fare alla segretaria di turno. Casomai chiedi all’infermiere, che vale meno. E dagli pure del tu. Non ti rammenterà mai che è un infermiere-dottore professionista laureato con due master e un dottorato di ricerca. Perchè tu paziente, penserai che saprà fare solo due punture, infonderti una flebo, cambiare tre garze, sistemare la luce sul tavolo del medico, prendergli le cartelle cliniche e seguire i suoi ordini.
Al dottore non esprimere lamentele, fallo con l’infermiera in divisa bianca candeggiata. Lei saprà sempre donarti un sorriso anche quando ti lamenterai del ritardo dei medici come se fosse colpa sua.
Allora, caro paziente, impara a considerare i professionisti della salute con la stessa dignità e rispetto del dottore in camice bianco.
L’infermiera con la divisa candeggiata e il fonendo in tasca è una dottoressa che scalpiccia nella tua stessa esistenza e in quella del medico che ti visiterà dopo. E’ una professionista che potrà anche indossare un volto stanco e gesti affettati, come il medico che ti farà la medicazione alle otto di sera. E se guarderà attraverso di te come se fossi trasparente, non è perchè vale meno di un medico che ti farà una diagnosi, ma perchè è un essere umano come te, il medico che ti cura oggi e quello che ti curerà domani. Solo che lei saprà guardarti dentro, attraverso, nel profondo.
Sarà lei a “prendersi veramente cura” di te. Si quell’infermiera. Anche infilata in una semplice divisa dal sapore di cloro.
Fanni Guidolin
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