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Infarto del miocardio dopo PCI: tocilizumab limita i danni

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Infarto del miocardio dopo PCI: tocilizumab limita i danni
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E’ la conclusione a cui è giunto uno studio norvegese pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology.

Secondo un piccolo studio proof-of-concept pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology, i pazienti con infarto miocardico con sovraslivellamento del tratto ST (STEMI) sottoposti a intervento coronarico percutaneo (PCI) che avevano ricevuto una dose endovenosa di tocilizumab, inibitore della citochina infiammatoria interkleuchina-6 (IL-6), prima della procedura sembravano avere un miocardio meno irreversibilmente danneggiato rispetto ai pazienti che avevano ricevuto un placebo corrispondente.

Sebbene non vi sia stata alcuna differenza significativa nella dimensione dell’infarto finale a sei mesi, l’indice di recupero miocardico rettificato, che spiega fino a che punto il miocardio ischemico si riprende dopo la riperfusione (e che era l’endpoint primario dello studio) era significativamente più alto tra i pazienti trattati con tocilizumab. Per quanto riguarda il significato clinico del miglioramento con l’inibitore IL-6, il ricercatore principale Kaspar Broch, dell’Oslo University Hospital Rikshospitalet (Norvegia), ha detto che deve ancora essere dimostrato.

“Quello a cui miriamo è ridurre le dimensioni dell’area a rischio che finisce per essere danneggiata in modo irreversibile – spiegano Broch e colleghi -. Ovviamente, se c’è una vasta area a rischio e si riduce molto quel danno irreversibile, ci si aspetta di vedere un beneficio in termini di esiti. Ma per vedere una differenza negli outcome si dovrebbero avere innanzitutto infarti del miocardio piuttosto grandi, più grandi di quelli presenti nel nostro studio. Il nostro problema è stato che avevamo pazienti con infarti del miocardio piuttosto piccoli. Inoltre avremmo dovuto avere un gran numero di pazienti per mostrare una differenza negli esiti”.

Precedenti successi dell’approccio antinfiammatorio alle patologie cardiovascolari – Lo studio, denominato ASSAIL-MI, approfondisce alcuni dei recenti successi di diverse terapie antinfiammatorie in vari contesti di malattie cardiovascolari. Per esempio, lo studio COLCOT ha dimostrato che la colchicina ha ridotto il rischio di eventi cardiovascolari ischemici in pazienti che hanno recentemente avuto un infarto del miocardio, mentre lo studio LoDoCo2 ha dimostrato di essere efficace nei pazienti con malattia coronarica cronica. Nello studio CANTOS anche l’anticorpo monoclonale umano canakinumab si è rivelato efficace, sebbene in modo modesto, nel ridurre il rischio di gravi eventi cardiovascolari in pazienti con malattia coronarica stabile.

Sperimentazioni già condotte con l’anticorpo monoclonale – Non è la prima volta che tocilizumab, anticorpo monoclonale umano utilizzato principalmente per il trattamento dell’artrite reumatoide e dell’artrite idiopatica giovanile sistemica, e ora in alcuni pazienti Covid-19 selezionati, è stato testato in pazienti con malattie cardiovascolari. Nel 2016, gli stessi ricercatori norvegesi dell’ASSAIL-MI avevano condotto un piccolo studio su pazienti con infarto miocardico senza sovraslivellamento del tratto ST (NSTEMI) e avevano dimostrato che tocilizumab riduceva i livelli di proteina C-reattiva (CRP) del 50% nei giorni successivi all’intervento. Broch e colleghi sottolineano che quel primo studio aveva mostrato che tocilizumab riduceva i livelli di troponina T nei pazienti che erano stati sottoposti a PCI e che questo ha suggerito che avrebbe potuto essere efficace per ridurre le lesioni da riperfusione dopo la rivascolarizzazione.

L’attuale studio ASSAIL-MI – Per testare questa ipotesi i ricercatori hanno randomizzato i pazienti che presentavano dolore toracico entro 6 ore dall’insorgenza dei sintomi a 280 mg di tocilizumab somministrati per via endovenosa (n = 101) o placebo (n = 99). I pazienti con pregresso infarto miocardico sono stati esclusi dallo studio, così come quelli con shock cardiogeno, arresto cardiaco rianimato e terapia fibrinolitica nelle ultime 72 ore, tra gli altri criteri. L’indice di recupero del miocardio, definito come la quota del miocardio a rischio recuperata dal trattamento dopo PCI, era del 69,3% nei pazienti trattati con tocilizumab e del 63,6% in quelli trattati con placebo, una differenza assoluta significativa del 5,6% (P = 0,04).

La dimensione finale dell’infarto, definita come la percentuale della massa ventricolare sinistra, era del 7,2% nei pazienti trattati con tocilizumab rispetto al 9,1% nel braccio placebo (P = 0,08). I livelli di CRP erano significativamente più bassi con il trattamento, ma non c’era alcuna differenza significativa nei valori di troponina T. I ricercatori vorrebbero studiare ulteriormente il farmaco, in particolare in uno studio sugli esiti, ma per farlo c’è bisogno di una sovvenzione molto grande perché questo farmaco è costoso, o bisognerebbe avere la sponsorizzazione dell’azienda farmaceutica, affermano.

Un’altra opzione potrebbe essere l’effettuazione di uno studio più piccolo, ma con pazienti con infarti più grandi, per esempio a carico della parete anteriore o a più alto rischio di lesioni da riperfusione a seguito di PCI, aggiungono. Broch e colleghi osservano che, in un’analisi di sottogruppo, il beneficio di tocilizumab è stato osservato in quelli trattati tre ore dopo l’insorgenza dei sintomi ma non in quelli trattati prima.

La seconda frontiera degli agenti antiflogistici – “ASSAIL-MI e il precedente studio di tocilizumab nei pazienti NSTEMI suggeriscono che la ‘seconda frontiera’ per gli agenti antinfiammatori potrebbe essere il setting dell’ischemia coronarica acuta e delle lesioni da riperfusione – scrive in un editoriale di commento Paul Ridker, del Brigham and Women’s Hospital di Boston -. Spostare gli interventi antinfiammatori dall’aterosclerosi stabile all’ischemia acuta è di notevole rilevanza clinica, anche se i meccanismi probabilmente sono differenti e si riferiscono più alla lesione da ischemia/riperfusione e alle conseguenze della rottura della placca che alla progressione aterosclerotica”.

Ridker, che ha guidato gli studi CANTOS e CIRT, osserva che l’entità dell’effetto visto con tocilizumab è piccola (la differenza del 5,6% nell’indice di recupero del miocardio scende ben al di sotto del 20% che viene tipicamente utilizzato per essere definito clinicamente importante), ma aggiunge che questo è uno studio precoce e si spera che si svolgano ulteriori ricerche. Fa infine notare che ziltivekimab, che è un nuovo anticorpo monoclonale ligando di IL-6, è stato recentemente testato negli studi di fase II e che il produttore prevede di testarne l’efficacia per rallentare la progressione dell’aterosclerosi.

Redazione Nurse Times

Fonte: PharmaStar

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