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Incompletezza della cartella clinica: incide solo se rende impossibile l’accertamento del nesso eziologico

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Commento Aadi a Cassazione Civile n. 29498/2019.

I sigg.ri R. S. B., L. B. e S. B., rispettivamente vedova e figli di R. B., convenivano davanti al Tribunale di Venezia l’Asl n. 12 e il Policlinico … S.p.A. per ottenerne il risarcimento dei danni in relazione all’evento morte occorso al proprio congiunto tra il 2007 e il 2008 presso l’ospedale di … e il suddetto Policlinico. Sia il policlinico che la Asl n. 12 si resistevano in giudizio e con sentenza del 15 marzo 2013 il Tribunale condannava l’Asl al risarcimento del danno ma rigettava la domanda nei confronti del Policlinico.

Contro il rigetto della domanda fanno appello i figli S.B. e nelle more del giudizio di secondo grado la Asl diveniva Azienda ULSS n. 12 Veneziana. La Corte d’appello di Venezia accoglieva l’appello incidentale della Asl, con conseguente rigetto di quello principale dei figli del de cuius. I ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 1176 e 2697 c.c. riguardo all’ipotizzata origine anteriore, al ricovero ospedaliero, del defedamento e del decadimento della salute del sig. R.B. sindrome determinata da piaghe da decubito non descritta ed inserita in anamnesi nella cartella clinica.

Il giudice di prime cure avrebbe affermato che dalla documentazione sanitaria non emergeva, prima dell’intervento subito da R. B. nell’ospedale X “una adeguata valutazione dell’anamnesi”. La corte territoriale avrebbe quindi acriticamente aderito al ragionamento svolto dal consulente tecnico d’ufficio, per cui nel diario clinico del 4 ottobre 2007 il paziente era stato definito defedato.

A questo punto nel motivo di appello viene inserita la fotocopia di un certificato del medico di base datata 9 gennaio 2008, attestante che il 3 settembre 2007 il B. si trovava in discrete condizioni di salute, al fine di affermare che lo scopo della cartella clinica sarebbe quello di “documentare eventuali preesistenze” alla patologia che aveva causato il ricovero che se non vengono rilevate nella cartella, dovrebbe presumersi non sussistenti. Nella responsabilità sanitaria, infatti, il medico viene condannato per un nesso di causalità “presunto”, nel senso che, se l’incertezza deriva dalla incompletezza della cartella clinica il medico è responsabile qualora la sua condotta sia astrattamente idonea a causare il danno, in riferimento alla responsabilità aquiliana.

La corte territoriale sarebbe andata in contrasto con quello che è l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, laddove invece avrebbe presunto che la malattia che avrebbe portato alla immobilizzazione e successiva morte del Sig. B. fosse una malattia preesistente al momento del ricovero e non iatrogena e quindi causata dal ricovero stesso “solo perché la cartella clinica non ne fa menzione prima del suo riscontro sintomatico con la visita fisiatrica del 4 ottobre”.

La corte territoriale avrebbe dovuto confrontare quel che constatò il fisiatra con il certificato del medico di famiglia su accennato, il comportamento dei medici o degli anestesisti o degli infermieri nell’operazione o nel periodo posteriore avrebbe quindi determinato la causa del defedamento, rimasta però ignota in quanto non descritta in cartella (sarebbe quindi potuta avvenire per lesioni dovute all’anestesia, per lesioni neurologiche chirurgiche o per “caduta ad opera del personale infermieristico”), per cui si dovrebbe presumere il nesso causale se sussiste un difetto nella cartella clinica.

Il motivo quindi in discussione è l’accertamento della causa del defedamento che avrebbe investito il Sig.B., sulla pretesa dell’incompletezza della cartella clinica dell’ospedale di X, in quanto, come si è visto che la censura parte da una frase estrapolata dalla motivazione della sentenza impugnata sul periodo temporale in cui si colloca la sindrome da defedamento e, se questa, fosse preesistente al primo ricovero, avvenuto nel suddetto ospedale. La giurisprudenza della Suprema Corte è ormai univoca, quanto alla ricostruzione delle vicende sanitarie al fine di evincerne la sussistenza o meno della responsabilità dei sanitari o della struttura, nel dare valore alla cartella clinica, che tuttavia non conduce automaticamente all’adempimento dell’onere probatorio da parte di chi adduce essere danneggiato.

In tal senso, Cass. sez. 3, 21 novembre 2017 n. 27561 ha ribadito proprio che “l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (così v. pure Cass.4 sez. 3, 12 giugno 2015 n. 12218). Il che significa però che l’incompletezza della cartella incide soltanto se va ad innestarsi in un contesto specifico che è proprio la fonte della sua necessaria rilevanza in questo senso.

In ogni caso è la condotta del sanitario, astrattamente idoneità alla causazione dell’evento dannoso il primo elemento da vagliare per la responsabilità sanitaria, in quanto, se, al contrario, la condotta del sanitario fosse astrattamente inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale. Solo dopo che si è superato questo stadio di indagine, in secondo luogo, deve essere presa in esame l’incompletezza della cartella clinica, che deve essere tale da impedire una ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nella connessione materialmente eziologica fra condotta sanitaria commissiva od omissiva ed evento.

La valenza della incompletezza della cartella clinica si pone così a favore di chi adduce di essere stato danneggiato (secondo il principio della prossimità della prova) poiché, diversamente, l’incompletezza verrebbe a giovare proprio a colui che, inadempiendo al proprio obbligo di diligenza (Cass. sez. 3, 18 settembre 2009 n. 20101 precisa che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, comma secondo, cod. civ. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; conformi, p. es., Cass. sez. 3, 26 gennaio 2010 n. 1538 e Cass. sez. 3, 5 luglio 2004 n. 12273), tale incompletezza ha creato.

Ancora, arresti recenti, Cass. sez. 3, 31 marzo 2016 n. 6209 insegna che “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”; e sulla stessa linea si collocano Cass. sez. 3, 27 aprile 2010 n. 10060, Cass. sez. 3, 26 gennaio 2010 n. 1538, Cass. sez. 3, 21 luglio 2003 n. 11316.

Tanto premesso però, la Suprema Corte si esprime nel senso che il motivo non è però pertinente con il thema decidendum conformato dagli stessi attuali ricorrenti con le loro azioni risarcitorie. I congiunti del sig. B., infatti, nel ricorso, danno atto di avere identificato come fonte di responsabilità dei soggetti convenuti davanti al Tribunale, non la causazione della patologia del sig. B., bensì il preteso difetto di assistenza in ordine alle conseguenze della patologia stessa, fondandosi appunto sulla doglianza che le piaghe da decubito derivate dalla c.d. “sindrome da allettamento” patita dal B. non sarebbero state fronteggiate in modo idoneo e giungendo poi anche a prospettare che tali devastanti piaghe da decubito fossero state infine la causa della morte del loro congiunto.

Ciò è confermato dai ricorrenti che hanno incentrato la loro doglianza soprattutto all’asserita carenza/inadeguatezza del trattamento infermieristico. Infatti, nella premessa del ricorso che ha avviato il giudizio in primo grado, viene riportato quanto segue: “Quale che sia il nesso eziologico tra il trattamento operatorio o anestesiologico e l’esito successivo, si deve tenere presente il dato oggettivo dell’immobilizzazione … indipendentemente dalla circostanza che la stessa possa avere avuto origine iatrogena … per evento attinente l’atto chirurgico o l’anestesia, o fosse dovuta a cause naturali. L’immobilizzazione già dal primo ricovero cominciò a produrre i suoi nefasti effetti, che dovevano e potevano essere evitati con una assidua assistenza infermieristica e che perciò devono considerarsi conseguenza diretta di carenze nell’assistenza infermieristica”.

Inoltre i ricorrenti hanno proposto due domande distinte: la prima, relativa alla causazione di “malattia ingravescente … dal ricovero per l’intervento fino alla morte, consistente nella progressiva devastazione della pelle e nella sindrome da allettamento e nelle malattie generali che l’hanno colpito di conseguenza”, dove si chiede condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale “che hanno colpito il signor B.”, nonché al risarcimento del danno morale subito dai congiunti; e la seconda, relativa all’accertamento che il B. sarebbe deceduto per l’aggravamento di tale malattia, con conseguente condanna al risarcimento del danno patito dai congiunti.

Con altro motivo di ricorso poi, denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 2697, 1218 e 1228 c.c. per non essere stato riconosciuto il nesso causale tra le piaghe di decubito, lo shock settico e la morte del Sig. B., in contrasto con quanto avrebbe invece affermato la corte territoriale che ha sancito che la consulenza tecnica d’ufficio non sarebbe stata categorica nell’affermare che le piaghe da decubito non avrebbero avuto “un ruolo” nella causazione della morte del B., in particolare, un passo della relazione della consulenza del CTU che asserisce che non sarebbe certo che il B. morì per shock settico derivante da estesissime piaghe da decubito in quanto l’ospedale avrebbe “accuratamente” evitato di “fare diagnosi”; e il consulente tecnico rileverebbe altresì l’impossibilità di effettuare una diagnosi certa quale conseguenza della mancanza di autopsia, pertanto mancherebbe la prova del nesso causale nella responsabilità contrattuale “per carenze diagnostiche del debitore” e per omesso esame necessario per la certezza diagnostica.

Pertanto, mancherebbe la prova del nesso causale nella responsabilità contrattuale “per carenze diagnostiche del debitore” e per omesso esame necessario per la certezza diagnostica. Nella responsabilità contrattuale infatti, l’onere della prova spetterebbe all’inadempiente (medico o infermiere) e il criterio di “vicinanza” alla prova consentirebbe di “risolvere le questioni di nesso causale” come insegna la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche con l’intervento nomofilattico di S.U. n. 577/2008.

Infatti, dall’articolo 1218 c.c. si dovrebbe desumere che l’unica prova liberatoria, gravante sul debitore inadempiente, è l’impossibilità oggettiva della prestazione. Per il corretto riparto dell’onere della prova nel caso di incertezza di causa della morte, l’incertezza avrebbe dovuto gravare sul debitore, che avrebbe dovuto tenere la cartella clinica in modo tale da impedire l’insorgenza di dubbi; inoltre il riparto dell’onere della prova porrebbe la responsabilità a carico dell’ospedale perché l’incertezza sulla causa della morte deriverebbe dalla mancata autopsia. Pur con una motivazione assai scarna, la corte territoriale ritiene certa l’origine del decesso: afferma infatti che la motivazione della sentenza impugnata che dalla consulenza tecnica d’ufficio, “congruamente motivata sulla base di una accurata analisi di tutti gli elementi disponibili”, emerge che “causa della morte non fu un’infezione delle piaghe da allettamento … bensì uno scompenso cardiocircolatorio acuto e conseguente edema polmonare”.

Dunque, il giudice d’appello ha espletato il suo accertamento fattuale, e il ricorso per cassazione non genera, come già sopra si evidenziava, un terzo grado di merito. Il motivo, quindi, non può condurre oltre – le argomentazioni relative al riparto dell’onere probatorio avrebbero rilievo soltanto se, appunto, il giudice non avesse accertato la causa della morte -, ma deve attestarsi sulla censura che muove all’accertamento del giudice d’appello.

Il giudice d’appello ha dichiarato con certezza quale ha ritenuto essere stata la causa del decesso del B.; tentare di inficiare il suo accertamento, sul presupposto che non sia fondato/definitivo, conduce anche questo motivo alla inammissibilità. In conclusione, quindi, la Corte rigettata il ricorso e compensa le spese.

Dott. Carlo Pisaniello

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