Una richiesta disperata di aiuto giunge dalle RSA di ogni parte di Italia, rimaste ormai senza personale in seguito alla pandemia di Covid-19.
Con le Asl che hanno fatto una vera e propria razzia di infermiere impiegati, o forse meglio dire sfruttati, all’interno di queste strutture per anziani spesso gestite da cooperative senza scrupoli.
Quasi una casa di riposo su due, in Italia, ha perso il personale dipendente o i propri collaboratori in libera professione, richiamati dalle allettanti offerte di un servizio sanitario pubblico in piena emergenza coronavirus.
Una delle situazioni più critiche vedrebbe coinvolta la Regione Piemonte. I gestori delle strutture lamentano la perdita di oltre 800 infermieri, fuggiti dalle condizioni economiche e lavorative disumane che tutti conoscono, per andare a combattere la pandemia in prima linea.
Tutte le realtà che si barcamenavano proponendo un rapporto infermiere/paziente di 1 a 120 (se non peggio) ora sono sull’orlo del fallimento.
Il numero totale di professionisti della salute si sarebbe ridotto del 35%, rispetto alle condizioni disastrose già presenti ovunque anche prima della pandemia.
Erano tuttavia giunte rassicurazioni da parte dell’assessore alla Sanità Luigi Icardi sul fatto che la fuga dal privato al pubblico sarebbe stata limitata poiché con una delibera di dicembre 2020 era stato previsto che gli infermieri delle Rsa assunti dalle Asl sarebbero rimasti “in distacco” nelle case di riposo di provenienza fino a fine emergenza, almeno fino al prossimo dicembre.
«Tuttavia l’esodo c’è stato lo stesso — attacca Michele Assandri, presidente dell’associazione dei gestori delle Rsa Anaste — Siamo a conoscenza di diversi casi in cui le Asl hanno contattato gli infermieri proponendo loro di licenziarsi dalla struttura per anziani e sono stati assunti dopo un giorno di stop, senza dover rispettare quei vincoli».
Dunque le soluzioni devono essere altre. « E rapide: se non si trova una soluzione entro settembre un terzo delle strutture rischierà di chiudere, soprattutto quelle piccole — è il grido di allarme della consigliera regionale Pd Monica Canalis — Un’idea è di far rientrare in Italia i tanti infermieri che sono andati a lavorare in Gran Bretagna. Tuttavia bisogna dare loro condizioni di lavoro equivalenti, sia ottimi stipendi che un’organizzazione del lavoro più appagante. L’alternativa è agevolare il riconoscimento dei titoli di studio degli infermieri stranieri, per esempio dell’Europa dell’Est».
Un’altra proposta era stata di potenziare la formazione degli Oss, aggiungendo mansioni da infermiere. Avevano pensato a questa strampalata soluzione il Veneto e il Piemonte, ma il Tar di Venezia ha raffreddato l’entusiasmo accogliendo la richiesta di sospensiva presentata da più Ordini degli infermieri.
«Quel pronunciamento del Tar è importante perché mette uno stop su una strada che non è quella giusta — spiega Massimo Sciretti, presidente degli infermieri torinesi — Non si può mortificare la professionalità di chi segue un corso universitario di tre anni facendo fare delle ore di formazione a un operatore socio- sanitario. Piuttosto si deve agire sulle ragioni che portano ad allontanarsi dalle Rsa per andare nel pubblico: stipendi più alti e condizioni di lavoro migliori visto che non di rado un solo professionista deve seguire anche un centinaio di degenti e dunque non può fare altro che distribuire le terapie, quando il suo ruolo dovrebbe essere più complesso e professionalmente appagante ».
In prima linea per risolvere questa emergenza c’è anche la Fondaczione Crc, che ha distribuito un questionario a tutte le strutture del Cuneese per avere un quadro chiaro della situazione e poter finanziare progetti mirati sul breve periodo, ma anche per studiare e sostenere nuovi modelli di Rsa per il futuro.
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