Nel silenzio assoluto della notte sentimmo dei singhiozzi. Nella penombra creata dai monitor accesi, cercavamo di capire chi potesse essere il paziente sveglio che stava piangendo. Così notammo Luisa (nome di fantasia), al letto X. Lei era arrivata il giorno prima.
Io c’ero al momento del ricovero: una bella e brava signora con i capelli in ordine, il pigiama rosa, le pantofole in borsa e la Reservoir al viso.
Era molto spaventata, e si chiedeva a cosa servissero tutti quei fili che cominciavamo ad avvicinare.
“Sai a cosa servono? Questi controllano l’andamento del cuore. Questo della saturazione. Quest’altro è per rilevare la pressione arteriosa. Come vedi tutti i nostri pazienti ce li hanno, non ti preoccupare, non c’è niente di strano. Questo invece è il campanello, se hai bisogno di noi chiamaci tranquillamente”.
Aveva gli occhi carichi di paura, ma noi cercavamo di tranquillizzarla.
“Anche io ho avuto il Covid Luisa, mi vedi ora? L’ho superata. Coraggio!” diceva la mia collega.
Luisa sembrava essersi un po’ rasserenata.
I rianimatori però non tardarono ad arrivare, e decisero di predisporre la cannula nasale ad alti flussi per lei. E le consigliarono di stare sempre prona, o al massimo in posizione laterale.
Passare una sola giornata così non è facile, figuriamoci più di un giorno.
Quella notte Luisa stava piangendo. Piangeva e cercava di tenersi fissa al volto la cannula nasale, tanto era il terrore di peggiorare la situazione con qualche movimento sbagliato. Non voleva chiamarci per timore di disturbarci. Avvolta nella sua solitudine, stava soffrendo tanto, fisicamente e moralmente.
“Luisa che succede?”
“Ho paura di morire“ disse singhiozzando.
Cosa si può rispondere ad una persona con questo dilemma nel cuore?
Luisa, vorrei tanto dirti che ce la farai, che questo che stai vivendo è come un brutto incubo.
Vorrei rassicurarti dicendoti che domani ti sveglierai accanto a tuo marito, nel letto della tua amata casa.
Camminerai nel parco con le amiche di una vita.
Cucinerai, come fai sempre, i piatti preferiti di tuo nipote, in attesa del suo arrivo.
Parlerai al telefono con tua figlia, e le racconterai del brutto incubo che hai fatto.
E invece di dire queste cose, purtroppo ero costretta a dover usare la razionalità. Miravo a distogliere Luisa dai suoi brutti pensieri, e farla concentrare sull’ossigeno che le arrivava dalla cannula.
“Senti il flusso? Prendilo, portalo dentro ai polmoni, è lui che ti farà bene. Non pensare ad altro, pensa solo all’ossigeno“.
La aiutammo a gestire il respiro, perché era così agitata da iperventilare e desaturare velocemente.
Prese la mano della mia collega: non voleva rimanere sola, aveva bisogno di un volto familiare, di una voce amorevole, ma non voleva chiamare la figlia a casa. Come avrebbe potuto reagire una figlia sapendo che la madre, in un letto di terapia intensiva covid, piangeva per paura di non farcela?
A questa gentile signora non rimaneva che aggrapparsi all’unico spiraglio di umanità che esiste in quelle camere d’ospedale: noi operatori sanitari.
Riuscì ad addormentarsi solo dopo un pò, tra le carezze della mia collega.
Due giorni dopo tornai in reparto.
Il letto X vuoto. Ancora.
Anche questa volta non stavo rivedendo una paziente che avevo visto arrivare.
Anche questa volta c’erano brutte notizie. “L’hanno intubata e portata in rianimazione. Ma non ce l’ha fatta”.
Ogni paziente ci lascia qualcosa dentro che dimenticheremo con difficoltà.
Una parola, una frase, un gesto, uno sguardo, un sorriso, una lacrima.
Luisa ha lasciato dentro di noi un’impronta pesante con la sua paura di morire.
Così come l’hanno lasciata Vincenzo, Nicola, Antonio, Angela, Rocco, Maria, Pasquale e tanti altri. Di loro ancora parliamo, con un filo di tenerezza e nostalgia nella nostra voce.
Tutti loro, compresa Luisa, non saranno mai dei numeri per noi.
Si continua a lavorare, si torna a casa, si sta con la famiglia, si continua a vivere.
Ma dentro di noi queste impronte rimangono.
Francesca Pia Biscosi
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