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Gioco al ribasso sulla professionalità in sanità pubblica: il caso dei nursing associate in Gran Bretagna

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Gioco al ribasso della professionalità in sanità pubblica: il caso dei nursing associate in Gran Bretagna
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Parliamo di una figura ibrida che suscita non poche perplessità.

Oss che entrano nel mondo delle professioni socio-sanitarie dopo l’approvazione della legge Lorenzin. Corsi di formazione per collaboratore sociosanitario, abilitanti all’esecuzione “atti medico-tecnici”. Infermieri già demansionati e ora angosciati dallo spettro di essere progressivamente rimpiazzati con figure che erano nate per supportarlo e per lasciargli maggiore libertà nella presa in carico assistenziale del paziente.

Le rosee aspettative riposte nell’istituzione della figura dell’operatore sociosanitario in Italia sono state senza ombra di dubbio tradite, negli ultimi anni, da una politica sanitaria che ha puntato esclusivamente al contenimento dei costi, con tagli orizzontali e spesso scellerati, che hanno fatto macerie dell’evoluzione della categoria infermieristica nel Belpaese e originato disoccupazione ed emigrazione di migliaia di professionisti verso lidi stranieri. Un fenomeno di vaste dimensioni, ancora oggi ingiustamente nascosto sotto il tappeto.

Il disastro diventa paradossale contraddizione se si pensa che, da più parti, si è da tempo levato un grido d’allarme per colmare le decine di migliaia di carenze organiche presenti e frenare il continuo peggioramento degli esiti delle cure e dell’efficienza e qualità del SSN nel suo complesso. Pensate che siano mali esclusivi del nostro amato e odiato Stivale? Tra poco vi ricrederete.

L’NHS nel Regno Unito, non mi stancherò mai di ripeterlo, è un sistema sanitario gemello del nostro: medesimi principi ispiratori, medesime forme di finanziamento, organizzazione più articolata ma spesso sovrapponibile alla nostra sanità pubblica, che nacque, esattamente 40 anni fa, da padri fondatori che considerarono proprio il modello inglese come punto di riferimento. National Health System e SSN hanno condiviso da sempre gli stessi mali. Tra questi, molto più che in Italia, spiccano le importanti lacune negli organici degli infermieri d’oltremanica.

Si tratta di un problema così atavico che, subito dopo la nascita dell’NHS nel 1948, lo stesso Winston Churchill promosse programmi di reclutamento di personale infermieristico nelle colonie del Commonwealth inglese. Queste carenze non sono mai state sanate. Il solo NHS England (sono esclusi dunque Scozia, Galles e Irlanda del Nord) stima un vuoto di circa 40mila unità, più o meno lo stesso dell’Italia.

Le recenti campagne di assunzione avviate dai Trust – attraverso agenzie di recruiting – nei Paesi europei, in primis Italia e Spagna, hanno inoltre subito una brusca frenata a seguito dell’introduzione della certificazione linguistica IELTS, affiancata di recente dall’OET (Occupational English Test) e dei timori legati alla Brexit. Si stima che, dall’aprile 2016 allo stesso mese dell’anno successivo, le richieste di iscrizione al registro NMC da parte di infermieri comunitari siano crollate del 96%.

L’NHS, in buona sostanza, necessita di rimpiazzi urgenti, peraltro in un clima di perduranti sottofinanziamenti e contenimenti dei costi da parte del Governo dei Tories, che hanno anche imposto dal 2010 un tetto (pay cap) dell’1% all’aumento degli stipendi del personale pubblico, un blocco capace di originare la fuga dal registro di oltre tremila infermieri in pochi anni. Carenze organiche e ristrettezze economiche sono all’origine dei disservizi e delle proteste che i pronto soccorso, gli A&E, stanno vivendo in prima linea in questi giorni di caos e sovraffollamento, dovuti al picco influenzale.

Come far quadrare il cerchio? Una soluzione molto semplice pare essere quella di ridurre i requisiti professionali richiesti per l’esecuzione di determinate prestazioni assistenziali. Creare nuove categorie, intermedie e ibride, tra gli infermieri e gli operatori di supporto, consente in effetti di cogliere due piccioni con una fava: si contengono i costi da un lato, mentre, dall’altro, si reclutano più agevolmente nuove leve, poiché si parte da una popolazione molto più ampia di potenziali candidati.

Nello scorso anno, l’NHS ha quindi introdotto, tra le proteste iniziali del maggior sindacato, l’RCN (proteste non approdate poi ad alcuna azione concreta) la figura del nursing associate, intermedia (anche sotto il profilo dell’inquadramento contrattuale, essendo un band 4) tra l’infermiere (che è almeno band 5) e l’HCA, la figura ausiliaria finora prevalente (che è invece inquadrata nel band 3). I primi duemila nursing associate, selezionati tra ben ottomila candidati – a conferma di quanto sostenuto in precedenza – sono già attualmente in fase di training, di durata biennale, in 35 diversi trust. A essi ne seguiranno altri cinquemila nel 2018 e 7.500 nel 2019, stando alle dichiarazioni dal Secretary of State for Health (il ministro della Salute) Jeremy Hunt, rese nell’ottobre 2017.

Accanto alle organizzazioni ufficiali, molte altre stanno formando nursing associate, ma senza rispettare i parametri fissati dall’Health Education England e senza attendere gli standard che saranno definiti a luglio 2018 dall’NMC, ovvero il registro infermieri inglese, al quale i nursing associate si dovranno iscrivere. È comunque da attendersi che questi operatori di supporto arriveranno a sostituire gli infermieri nell’esecuzione di molte prestazioni assistenziali, comprese l’esecuzione di un prelievo ematico o l’incannulamento. D’altronde le barriere tra le professioni, per quanto concerne le competenze tecniche, sono molto più fluide in Gran Bretagna che in Italia, per cui può anche verificarsi che il phlebotomist, l’addetto all’esecuzione dei prelievi, possa essere addirittura un HCA che ha seguito uno specifico corso di formazione, comprensivo di un breve tirocinio.

I nursing associate, nello specifico, saranno in grado di eseguire, oltre alle prestazioni già menzionate, anche interventi invasivi, come l’inserimento di un catetere vescicale, oppure di somministrare farmaci, previo riconoscimento formale della competenza dimostrata nell’esecuzione di questo compito e in setting assistenziali appropriati. Al momento non vi sono ulteriori specificazioni al riguardo, ma è improbabile che i nursing associate potranno arrivare a somministrare terapie endovenose. Gli scopi dell’introduzione di questa figura assistenziale sono senza dubbio pragmatici e cogenti: bisognava colmare un gap e bisognava colmarlo subito, per liberare tempo e consentire agli infermieri di elaborare piani assistenziali, concentrarsi sulla presa in carico globale del paziente e non incappare nelle sabbie mobili del demansionamento.

Resta però da chiedersi se vi sia davvero assoluta nobiltà d’intenti, alla luce di un disegno politico complessivo che si mostra fortemente contraddittorio. Oltre al già menzionato pay cap, infatti, dal 2016 il Governo Tory ha abolito gran parte delle bursaries, ovvero le borse di studio con cui gli studenti universitari inglesi erano remunerati (ebbene sì), sostituendole con finanziamenti, ovvero prestiti bancari da restituire nel lungo termine, una volta assunti. L’iniziativa è stata bocciata da molti giovani inglesi, tanto da determinare un crollo del 23% nelle nuove richieste di iscrizione alle facoltà di Nursing, generando un’ulteriore lacuna, presto colmata da altri programmi, mirati a creare nuove figure infermieristiche, ma attraverso un percorso misto che comprende anche alcuni anni di apprendistato (ne parlerò in un altro articolo).

Certamente l’istituzione di una figura intermedia non ha suscitato lo scandalo di una categoria, quella infermieristica, che nel Regno Unito gode di ampie prospettive di carriera e può arrivare essa stessa a varcare i confini della professione medica, come nel caso dei practitioner. Anzi, Lisa Bayliss Pratt, chief nurse dell’Health Education England, l’organismo NHS deputato all’elaborazione dei programmi di studio e formazione, nel corso di un convegno nazionale tenutosi proprio in questi giorni ha lodato l’entusiasmo e lo spirito di iniziativa degli studenti impegnati nei programmi di formazione per nursing associate.

Non v’è dubbio che un’iniezione di forza lavoro fresca apporterà numerosi benefici anche alle altre categorie. Tuttavia, per chi guarda il quadro complessivo, iniziative del genere alimentano non poche perplessità. In effetti, se è stato possibile reperire ingenti risorse per la formazione e l’introduzione nel mercato del lavoro dei nursing associate, perché le stesse non sono state destinate alla formazione universitaria dei nuovi infermieri? Perché rendere la professione, anche economicamente, sempre meno appetibile per le nuove generazioni, fissando un pay cap che è rimasto immutato da sette anni? Perché ingenerare nel pubblico tanta confusione nell’identificazione delle figure professionali, creando un nuovo ruolo che reca in sé la denominazione di nurse?

A pensar male, come sosteneva uno scaltro politico del dopoguerra, si commette peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Il sospetto è che, dietro le politiche aziendalistiche di tagli alle spese, nei Governi dei sistemi sanitari pubblici, si celi un astuto gioco al ribasso: quello di chi vuole riservare alla popolazione nel suo complesso una sanità pubblica e gratuita di bassa qualità, anche sotto il profilo della preparazione professionale, proponendo, progressivamente ma sempre più insistentemente, la dorata alternativa dell’assistenza privata ai pochi che se lo possono permettere.

Drizzate le antenne, cari lettori che vivete la sanità come operatori o pazienti, perché fosche nubi si addensano sempre più minacciose nel cielo del welfare voluto e pianificato nell’Europa del dopoguerra. Un welfare che ha permesso a molte nazioni di raggiungere una qualità di vita invidiata dal resto del mondo, ma ad oggi in pericolo di sopravvivenza.

Luigi D’Onofrio

 

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