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Fra professionalità e socialità: l’infermiere come comunicatore

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Il dott. Cotugno presenta la tesi "La comunicazione come strumento terapeutico: il ruolo dell’infermiere"
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“Non si può non comunicare”. Così recita il primo dei cinque assiomi su cui Paul Watzlawick e la scuola di Palo Alto hanno studiato gli aspetti relativi all’universo pratico della comunicazione umana arrivando a sintetizzarne le caratteristiche principali riempiendo così, con la pubblicazione nel 1967 di “Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes”, un settore lasciato fin troppo scoperto fino a quel periodo; tutti sappiamo quanto abbiano significato gli anni Sessanta da un punto di vista di risveglio culturale e sociale, e quindi un aspetto fondamentale come quello comunicativo non poteva di certo essere trascurato.

Nel campo delle Scienze Infermieristiche l’applicazione del primo assioma sopracitato ha il suo culmine nel processo di assistenza infermieristica e, come ricorda Marinella Sommaruga all’interno del manuale Comunicare con il paziente la consapevolezza della relazione nella professione infermieristica, nel binomio infermiere-assistito “prendersi cura dell’assistito significa oggi costruire una relazione finalizzata a migliorare le condizioni di vita, a facilitare la responsabilità dell’assistito verso il proprio benessere, a favorire un rapporto tollerabile con la condizione di disagio e sofferenza”. E che tipo di relazione si potrebbe mai instaurare senza la comunicazione?

Sempre la Sommaruga, all’interno del manuale pubblicato nel 2005, definisce la comunicazione come “un processo che coinvolge più soggetti sociali in una serie di eventi, che si basa soprattutto sull’interazione e sulla relazione fra gli interlocutori, considerati soggetti attivi, e che è caratterizzata da un certo grado di consapevolezza e di intenzionalità della persona emittente”.

Partire dalla fine, ovvero da una considerazione dell’autrice di uno dei testi fondamentali per conoscere e approfondire le dinamiche rigurdanti l’universo comunicativo nella relazione fra assistito e infermiere, aiuta e non poco a capire ciò che sta alla base del comunicare nella relazione d’aiuto, il centro dell’attività infermieristica: gli obiettivi della relazione d’aiuto sono assistere, prendersi cura, aiutare. In una parola, presa in prestito dall’inglese, “to care”. E proprio nel fare infermieristico il “care” permea ogni attività.

Tralasciando le finalità e tornando per un attimo all’inizio, è d’obbligo fare una distinzione troppo spesso trascurata, ovvero che il comunicare è ben diverso dall’informare: le due parole non sono affatto sinonimi e la loro etimologia ne è la riprova; qui viene in aiuto il Dizionario etimologico della lingua italiana (Cortellazzo e Zolli): nel primo caso il vocabolo viene dal latino communicàre che significa “rendere comune, trasmettere”, mentre informare è “modellare secondo una forma” e ancor meglio “ragguagliare”. Quindi da una parte metto in comune, dall’altra ragguaglio qualcuno riguardo a qualcosa, condividere versus riferire.

È evidente una prima macroscopica differenza: la condivisione presuppone un rapporto paritario – che può essere ad esempio una comune esperienza o un comune bagaglio culturale – tra i vari interlocutori, mentre l’informare non tiene conto del nesso che lega i vari attori, ma è solo una trasmissione di dati sotto varie forme.
Il mettere in comune quindi è fondamentale nella relazione d’aiuto perché è un’attività che, oltre a livellare il rapporto fra assitito e infermiere, apre allo scenario dell’empatia che, come ricorda sempre la Sommaruga, “è la capacità di entrare in risonanza emotiva con l’altro, riuscendo così a percepire meglio i suoi sentimenti e stati d’animo, pur mantenendosi sempre sufficientemente distanziati e differenziati da lui. […] è l’accettazione incondizionata degli stati d’animo così come vengono offerti nella relazione”. È solo attraverso l’empatia che l’infermiere potrà far risaltare le abilità della persona, sostenere la sua autonomia, cancellare ogni pregiudizio ideologico o etnico e anzi valorizzare le differenze come punti fondamentali dell’unicità della persona bisognosa di assistenza.

L’infermiere nel ruolo di comunicatore deve altresì tener conto di aspetti che vanno oltre il linguaggio verbale: per usare le parole di Anolli in “Significato modale e comunicazione non verbale”, “nel comunicare, gli esseri umani hanno a loro disposizione una pluralità di altri sistemi – non verbali – di significazione e di segnalazione”.
La complessità del comportamento comunicativo si riflette anche nella moltitudine di segnali quali l’aspetto esteriore, i gesti e il contatto fisico, l’espressione del viso e la tonalità vocale, che vanno a costituire la comunicazione non verbale.
In questa precisa dinamica il contatto assume un significato particolare, in quanto relazionarsi con l’assistito anche da un punto di vista fisico è fondamentale per avere un legame positivo e produttivo ai fini dell’assistenza. È importante ricordarsi che il contatto corporeo, diverso a seconda della cultura di appartenenza, indica il senso di intimità ed esistono vari modi per stabilire un contatto fisico: toccare il braccio, stringere la mano e accarezzare devono essere tutti comportamenti da modulare per non produrre fastidi, equivoci o problemi, evitando di compromettere così la relazione con la persona assistita.

Il comportamento motorio e gestuale dell’infermiere trasmette anche più della sola comunicazione verbale: prendiamo ad esempio gli assistiti con malattia di Alzheimer, con i quali un idoneo comportamento motorio e gestuale può essere di grande aiuto per interagirvi.
Con questa tipologia di assisti, dipendentemente dallo stadio della malattia, si dovrà porre un accento ancora più marcato riguardo ai comportamenti da utilizzare: una gestualità troppo netta con movimenti decisi verso la persona potrebbe essere interpretata come aggressiva e tutti gli sforzi prodotti per relazionarsi con l’assistito risulterebbero vanificati.

Infine, sempre prendendo spunto dall’esempio degli assistiti con malattia di Alzheimer, bisogna sempre tener presente che sia la comunicazione verbale che quella non verbale sono frutto di abilità cognitive che calano di pari passo al progredire della malattia; l’importante è superare e soprattutto far superare ai familiari e al caregiver la comune credenza che non si possa comunicare con un malato di Alzheimer, e questo ha una duplice valenza: non solo rappresenta una valida modalità di stimolare l’assistito ed evitare alcuni disturbi comportamentali ma anche perché contribuisce in maniera significativa ad offrire una dignitosa qualità di vita alla persona malata.

In definitiva, la comunicazione altro non è che una delle molteplici facce del processo di nursing, che integra la moltitudine di pratiche per la buona riuscita del “care”, il prendersi cura, tratto distintivo e fine ultimo della professione infermieristica rispetto a tutte altre professioni sanitarie.

Marco Parracciani

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