Oggi nel letto N c’è un paziente arrivato da poco. C’è un crescendo di agitazione in lui. Non tollera la CPAP, strappa tutto ciò che trova sotto mano, si tira il catetere, il camice, lancia via le lenzuola.
Ci siamo io e la collega che proviamo a parlargli, a calmarlo. Gli accarezzo la testa, gli stringo la mano, sperando che almeno il contatto umano possa non farlo sentire solo ed inascoltato. Questa volta non basta neanche questo. Proprio non ce la fa a calmarsi, vuole scavalcarci, vuole scappare via, urla di voler andare a casa.
Nei suoi occhi la paura sovrasta tutti gli altri sentimenti. E più piange e si dispera, più non riesce a respirare, più il suo cuore accellera i battiti. “Ti prego respira, pensa solo a respirare!!” Lo guardo e penso “Potrebbe esserci mio padre qui”. “Potrebbe esserci mia madre”, “Potrebbe esserci mia nonna”, “Potrei esserci io”.
Ho bisogno di allontanarmi un secondo, lo lascio per un istante con la mia collega. Mi appoggio al muro e fisso il vuoto, devo prendere aria, ma con questa bardatura riesco solo a boccheggiare contro la mascherina. Stiamo vivendo un inferno. Non ci sarà mai nulla che potrà cancellare questo momento.
Francesca Biscosi, infermiera
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