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Fausta Bonino: da infermiera modello ad angelo della morte

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Quali sono state le motivazioni che hanno spinto il tribunale a scarcerare la presunta infermiera killer Fausta Bonino?

Fausta Bonino è stata scarcerata perché non erano presenti motivi per proseguire la detenzione dell’infermiera. L’accusa infamante di aver ucciso 13 pazienti ricoverati nel proprio reparto di rianimazione non era basata su alcuna prova certa e l’ordinanza del giudice che mandava in carcere l’infermiera non stava proprio in piedi.

Non vi erano infatti i presupposti per l’applicazione della misura cautelare, il pericolo di fuga era infatti inverosimile e la reiterazione del reato era impossibile poiché l’infermiera era già stata trasferita in un reparto nel quale non avrebbe potuto nuocere. Sarebbe pertanto stato sufficiente sospenderla dal lavoro impedendole l’accesso all’ospedale anziché disporne la custodia in carcere.

Anche l’inquinamento delle prove sarebbe stato impossibile dato che l’infermiera non aveva possibilità di riesumare le salme dei pazienti deceduti che nella maggior parte dei casi sono stati cremati.

I magistrati e l’opinione pubblica hanno da subito etichettato la Bonino come “infermiera killer” causandole una carcerazione che appare davvero immotivata ed affibbiandole una nomea che la accompagnerà per il resto della sua vita.

Deve ancora essere dimostrata qualsiasi ipotesi pertanto non è detto che l’infermiera sia innocente ma attualmente non esistono prove che avvalorino la tesi dell’accusa. Sarebbe stato più corretto indagare ulteriormente anziché mettere alla gogna una persona che fino al giorno prima veniva indicata da tutti come grande lavoratrice, seria e affidabile.

Le motivazioni che hanno portato al fermo della Bonino sono conseguenza di alcune conversazioni telefoniche che, di fatto, non provano nulla.

Le motivazioni per la detenzione fornite dai giudici riguardano inizialmente solo due casi definiti:

Marcella Ferri, paziente deceduta nel reparto dove prestava servizio l’infermiera. Gli inquirenti affermano che la paziente sia morta per la somministrazione di un farmaco letale non prescritto da alcun medico. Quale sia il farmaco? Non si sa e non si potrà mai sapere dato che il corpo della donna é stato cremato. L’indizio che ha portato i giudici ad attribuirle l’omicidio é rappresentato dalla preoccupazione per le indagini in reparto manifestate telefonicamente dall’infermiera che si sentiva accerchiata dagli investigatori.

Bruno Carletti, anch’esso deceduto nel reparto della Bonino. Secondo i giudici l’eparina somministrata dall’infermiera fa subito effetto. Il paziente viene assistito nelle 3 ore precedenti al decesso da diversi medici ed infermieri. Perché dunque questo decesso viene attribuito alla Bonino? Perché in cartella é riportato che lei ha effettuato il prelievo ematico al malato pertanto verosimilmente gli avrebbe potuto somministrare anche la dose letale di eparina.

Secondo i giudici l’elemento probatorio più significativo sta nelle intercettazioni telefoniche che saranno analizzate di seguito.

La Bonino, dopo essere stata interrogata dal magistrato, telefona alla propria coordinatrice:

“Ma tu pensi che l’epilessia mi possa aver fatto fare qualcosa che non ricordo?”

Come dire, io sono certa di non aver fatto nulla, ma pensi che sia possibile che l’epilessia mi possa aver fatto fare delle cose in stato di incoscienza?”

Basta leggere il contenuto delle intercettazioni per capire che non provino nulla. Non dimostrano un coinvolgimento diretto ma provano solo la preoccupazione ed il senso di accerchiamento dovuto al fatto di sentirsi tutti gli occhi addosso.

Partendo da questi due decessi attribuibili con “certezza” alla Bonino, gli inquirenti la ritengono responsabile di ulteriori 11 morti sospette antecedenti basandosi sul fatto che la presenza dell’infermiera fosse “costante e cronologicamente compatibile” al momento della loro morte.

Viene ipotizzata la somministrazione di un farmaco letale, presumibilmente eparina, in ognuno dei 13 decessi pur non avendo riesumato alcuna salma ne aver effettuato alcuna autopsia.

Il fatto che l’infermiera lavorasse molte ore in più del dovuto senza mai assentarsi dal lavoro fanno sospettare gli investigatori. La sua presenza costante dalle ore 14 alle ore 21 fanno propendere i giudici per un desiderio di provocare la morte ad altre persone da parte dell’infermiera.

I giudici del riesame hanno smantellato il castello probatorio basato su voci di corridoio e maldicenze di colleghe e coordinatrice restituendo la piena libertà all’infermiera dopo quasi un mese di detenzione.

La Bonino, intervistata dai reporter di “Quarto Grado” non ha accusato le proprie colleghe bensì la coordinatrice ed il primario del reparto di rianimazione.

Le colleghe mi hanno sempre difeso a denti stretti e mi sono venute tutte a trovare in carcere”.

Il primario è la caposala non vedevano di buon occhio l’infermiera che ha più volte chiesto spiegazioni in merito a situazioni anomale.

«Si sapeva da tanto tempo, non so se dal 2014 ma certamente nel 2015 io ho chiesto più volte alla caposala e al primario. La prima non mi ha mai risposto, secondo il primario invece era tutto regolare».

Mentre le indagini proseguono alla ricerca di un eventuale colpevole per queste morti che potrebbero non avere correlazioni tutta questa vicenda deve far riflettere sulla situazione che affligge la nostra professione. In Italia sono presenti circa 430.000 infermieri che formano un gruppo tanto numeroso quanto disomogeneo. Probabilmente conflitti personali tra coordinatrice ed infermiera hanno dato origine a tutto ciò. Solo ulteriori indagini potranno fare chiarezza.

Simone Gussoni

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