La Sicilia è stata la prima regione italiana ad applicare questa terapia mininvasiva per contrastare l’insufficienza renale cronica.
L’accesso vascolare per emodialisi viene creato per via endovascolare mediante un impulso a radiofrequenza al posto del bisturi. Si tratta di una innovativa terapia minimamente invasiva, che ha avuto la sua prima applicazione all’Azienda ospedaliera Cannizzaro di Catania, primo centro del Sud-Italia e tra i pochi italiani a proporre questo tipo di procedura. Un know-how che, a un anno dall’introduzione di questa tecnologia, è stato condiviso l’ospedale di Ragusa.
Cos’è l’insufficienza renale cronica – L’insufficienza renale cronica è una condizione caratterizzata dalla progressiva perdita di funzionalità dei reni. Attualmente per i pazienti nella fase di End Stage Renal Disease (V stadio della malattia), l’unica possibilità terapeutica è la sostituzione della funzionalità renale con il trapianto o con la dialisi. Tuttavia il trapianto non è effettuabile per vari motivi nella totalità dei pazienti, e pertanto la dialisi rimane, al momento, l’opzione terapeutica principale.
Ad oggi tutte le linee guida raccomandano che ogni paziente dovrebbe iniziare la dialisi con un accesso vascolare ben funzionante. A tal proposito dati clinici dimostrano che una fistola nativa offre una maggiore longevità dell’accesso vascolare, con associato un minor tasso di morbilità e mortalità della popolazione dialitica rispetto l’utilizzo di graft e CVC, e in particolare proprio rispetto a questi ultimi comporta una riduzione del tasso di infezioni accesso correlate.
Nonostante l’approccio chirurgico per la creazione delle FAV sia la metodica maggiormente adottata nella pratica clinica, permangono delle difficoltà principalmente correlate all’insorgenza di alcune complicanze. E’ noto, infatti, che le fistole native, anche se in misura minore rispetto alle protesi, vanno incontro a trombosi che ad oggi rappresenta la causa principale di perdita dell’accesso. L’anatomia e la fluidodinamica della fistola chirurgica, nonché la manipolazione stessa del vaso correlate alla procedura, sono spesso elementi associati all’insorgenza di iperplasia intimale e quindi fallimento primario della fistola.
Alla procedura chirurgica, inoltre, sono spesso associate anche stenosi, cioè un restringimento della vena arterializzata (il 30% delle fistole va incontro a stenosi entro sei settimane post-intervento), con la necessità di intervenire con due-tre procedure per paziente/anno al fine di mantenere la fistola funzionante. A questo si aggiunge il dato che circa il 15-46% delle fistole chirurgiche purtroppo non matura, rendendosi di fatto inutilizzabile per l’emodialisi unitamente a un 10-23% delle fistole che trombizza entro i tre mesi dalla creazione.
Altro dato non di poco conto è che circa il 30% dei pazienti rifiuta l’approccio chirurgico, preferendo l’impianto di un CVC per motivi spesso riconducibili a precedente fallimento della fistola/graft, dolore e nel 52% dei casi per deturpamento del braccio.
Il sistema di accesso venoso mininvasivo – In tal contesto c’è un’innovazione nell’ambito dell’accesso dialitico, nel confezionamento della fistola, che trasforma l’attuale atto chirurgico in una procedura endovascolare, minimamente invasiva. I vasi, infatti, non sono suturati né dissecati o immobilizzati, e come tale il rischio di stenosi e/o malfunzionamento della fistola, dovuto alla manipolazione chirurgica, è notevolmente mitigato dalla mini-invasività.
La tecnica si avvale di un sistema costituito da due cateteri (sottili strutture filiformi) introdotti per via percutanea (rispettivamente, in un vaso venoso ed in un vaso arterioso particolarmente vicini ed opportunamente appaiati), permettendo la creazione di una comunicazione tra i due vasi (fistola arterovenosa – FAV) attraverso l’applicazione di energia a radiofrequenza focalizzata tra i due cateteri e generata da opportuno generatore esterno.
La FAV viene dunque creata senza bisturi, evitando così al paziente lo stress emotivo e fisico e le cicatrici di un intervento chirurgico tradizionale. La nuova tecnica, eseguita finora in pochi centri al mondo, sfrutta in modo univoco i vasi strettamente allineati, con evidenti vantaggi per i pazienti. Le persone che devono intraprendere un percorso di dialisi, infatti, soffrono di una grave insufficienza renale cronica e sono per questo maggiormente esposte al rischio di sviluppare specifiche complicanze.
L’accesso vascolare per emodialisi viene creato quindi per via endovascolare mediante un impulso a radiofrequenza al posto del bisturi: si tratta di una innovativa terapia che ha avuto la sua prima applicazione presso l’Azienda Ospedaliera Cannizzaro di Catania, primo centro del sud-Italia, e tra i pochi centri italiani, a proporre questo tipo di procedura e che dopo un anno dall’introduzione della tecnologia ha condiviso il suo know-how con l’Ospedale di Ragusa.
La Regione Sicilia rappresenta un punto di riferimento per il Sud-Italia per questa tecnologia, ed è stata in grado di riorganizzarsi (a seguito della pandemia da Covid-19) per continuare a offrire soluzioni tecnologiche avanzate per il paziente in dialisi. La priorità per tutti è stato il benessere dei pazienti affetti da questa patologia cronica, trovando la soluzione giusta per portare la Sicilia tra la prime realtà italiane ad adottare e offrire questo miglioramento ai pazienti dializzati, superando le difficoltà burocratiche.
Questa tecnologia altamente avanzata, realizzata da Becton Dickinson, rappresenta una vera e propria rivoluzione nell’ambito dell’accesso vascolare per la dialisi, trasformando l’attuale atto chirurgico in una procedura endovascolare minimamente invasiva. È una tecnologia che gode di tassi di successo clinico paragonabili e per alcuni aspetti superiori alla procedura chirurgica, con maggiore probabilità di una fistola utilizzabile (le fistole che giungono a maturazione sono oltre il 91%). Grazie alla mininvasività del sistema i vasi non risentono del trauma chirurgico, con conseguente riduzione delle reazioni infiammatorie, coagulatorie e cicatrizzanti avverse nell’ambiente uremico, ad oggi possibili cause di fallimento nella chirurgia tradizionale.
Questo, ovviamente, si traduce nella quasi totale assenza di procedure di reintervento sul paziente per il ripristino della pervietà vascolare, con tutta una serie di benefici per il paziente, in termini di migliore funzionalità dell’accesso vascolare, ridotta ospedalizzazione, inferiore esposizione ai rischi di infezioni accesso correlate. Senza trascurare il minimo deturpamento da cicatrici o da formazioni aneurismatiche, grazie alla mininvasività del sistema. Tutto ciò si traduce, inoltre, in un risparmio economico per il Servizio sanitario, dal momento che la più frequente causa di ricovero per i pazienti emodializzati consiste proprio nel malfunzionamento della fistola arterovenosa.
Redazione Nurse Times
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